Francesco Mattesini Posted November 2, 2023 Report Share Posted November 2, 2023 (edited) Riporto dal mio saggio “La Marina del Regno del Sud”, pubblicata in tre puntate dal Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, il sottostante Primo Capitolo, del numero VII del giugno 1994, con alcune piccole variazioni, dovute alla rilettura e necessita di aggiornamento dell'intero lavoro, che comprende circa 250 pagine, con una serie di documenti fotografati dall'originale. Francesco Mattesini _____________________ Prime manifestazioni di cooperazione tra il Governo italiano del maresciallo Pietro Badoglio e il Comando in Capo delle Forze anglo-americane nel Mediterraneo La partecipazione attiva delle Forze Armate italiane alla guerra contro la Germania, era stata considerata dagli Alleati, per la prima volta, nel “Memorandum di Quebec” dell’agosto 1943, compilato congiuntamente nella città canadese dal Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt e dal Primo Ministro britannico Winston Spencer Churchill. Il memorandum fu annesso alle condizione dell’”Armistizio Corto”, presentate all’approvazione del Governo italiano del maresciallo Pietro Badoglio, prima della firma di Cassibile (Sicilia), avvenuta il pomeriggio del 3 settembre. Nel Memorandum di Quebec, secondo la traduzione in italiano che lo Stato Maggiore delle Forze Armate italiane (Comando Supremo) fece pervenire ai Capi Militari dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica nelle prime ore del 9 settembre 1943, era chiaramente riportato:[1] Dette condizioni [dell’Armistizio Corto] non contemplano un’assistenza attiva da parte dell’Italia nel combattere i tedeschi. La misura in cui le condizioni saranno modificate a favore dell’Italia dipenderà da quanto verrà effettivamente fatto dal Governo e dal popolo italiano per aiutare le Nazioni Alleate contro la Germania durante il resto della guerra. Le Nazioni Unite dichiarano ad ogni modo senza riserve che ovunque le forze italiane o gli italiani combatteranno i tedeschi o distruggeranno proprietà tedesca o ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l’aiuto possibile dalle forze delle Nazioni Unite. Il 10 settembre, di fronte alle difficoltà incontrate nella testa di sbarco di Salerno, dove le truppe anglo-americane, comprendenti quattro divisioni si trovavano in difficoltà per la pronta reazione di due divisioni corazzare tedesche, la 16a Panzer e la 24a Panzergrenadier,[2] il Comandante in Capo delle Forze Alleate, generale Dwight David Eisenhower, ad Algeri, fece pervenire al maresciallo Badoglio il messaggio n. 443, in cui era specificato:[3] L’intero futuro ed onore dell’Italia dipendono da ciò che le sue forze armate sono ora pronte a fare. I tedeschi sono definitivamente entrati in campo contro di voi. Hanno mutilato la vostra flotta ed affondato una delle vostre navi; hanno attaccato i vostri porti. I tedeschi vengono ora attaccati sulla terra ed in mare e, su una scala sempre più vasta, dall’aria. E’ giunto il momento di agire. Se l’Italia, dal primo all’ultimo uomo si alza ora avremo ogni tedesco [preso] per la gola. Vi propongo con urgenza di fare perciò un richiamo squillante a tutti gli italiani amanti della Patria. Hanno già fatto molto di propria iniziativa ma queste azioni sembrano essere incerte e non coordinate. Hanno bisogno di essere guidati e per lottare è necessario ed essenziale dare al vostro popolo un’idea chiara ed efficiente della situazione. Vostra Eccellenza è l’unico uomo che può fare ciò. Potete così assisterci a liberare il Vostro paese dagli orrori dei campi di battaglia. Vi prego con urgenza di agire adesso, l’esitazione verrebbe interpretata dal nostro comune nemico come un segno di indecisione e di debolezza. La risposta del Capo del Governo italiano ad Algeri l’11 settembre, fu trasmessa al Comandante in Capo delle Forze Alleate nella seguente forma:[4] Al generale Eisenhower. Ricevuto vostro messaggio (alt) Fin da ieri sono stati trasmessi ordini a tutte le forze armate di agire con vigore contro aggressioni tedesche (alt) Oggi sarà diramato un messaggio del Re ed un proclama mio alla Nazione (alt) Vi prego mandarmi subito Brindisi un Vostro ufficiale specialmente qualificato che metteremo al corrente della situazione (alt) Insieme situazione impone però che vostro concorso sia il più rapido ed il più potente possibile (alt) Badoglio. Purtroppo la speranza nutrita dal generale Eisenhower di un possibile ed urgente intervento dell’Esercito italiano contro i tedeschi – almeno nell’Italia centrale, e in particolare nella zona di Roma – per impedire l’afflusso dei rinforzi alle sei divisione tedesche della 10a Armata, che il feldmaresciallo Albert Kesselring, Comandante Superiore del Sud (Oberkommando der Wehrmacht – OKW – a Frascati), faceva transitare diretti a Salerno, non si concretizzò per l’inatteso sbandamento verificatosi nelle Forze Armate del Regno subito dopo la dichiarazione dell’armistizio dell’8 settembre.[5] Eisenhower espresse allora tutto il suo malumore in una lettera del 13 settembre, inviata a Washington al generale George C. Marshall, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito statunitense, sostenendo:[6] Gli italiani sono stati così deboli che abbiamo avuto poco o nessun pratico aiuto da loro … non vi è stato nulla nell’effetto prodotto che somigliasse a quanto era nel regno delle possibilità. Nel contempo, in conformità con la richiesta di Badoglio di inviare a Brindisi, sede del Governo italiano e della corte del Re Vittorio Emanuele III, un ufficiale qualificato per discutere della situazione, il generale Eisenhower aveva informato il maresciallo Badoglio di aver disposto affinché una Missione Militare Alleata, composta da sedici ufficiali e ventotto sottufficiali, fosse inviata nella citta pugliese. La Missione – specificava il messaggio di Eisenhower – per la quale era richiesto di preparare uffici e alloggi, sarebbe stata “investita d’autorità di comunicare istruzioni uscenti dal Quartier Generale delle Forze Alleate nei limiti dell’armistizio nonché di provvedere all’azione coordinata del popolo italiano et forze armate italiane insieme con le operazioni delle forze alleate”.[7] A comandare la missione fu destinato il tenente generale britannico Frank Noel Mason-MacFarlane, Governatore di Gibilterra, che aveva per suo vice il generale di brigata statunitense Maxwell Davemport Taylor. Era quest’ultimo un ufficiale ben conosciuto dal Capo del Governo italiano per la sua missione a Roma dei giorni 7 e 8 settembre, svolta per coordinare l’arrivo negli aeroporti della Capitale italiana (Cerveteri, Furbara e Guidonia) della 82a Divisione aviotrasportata statunitense nell’ambito dell’aviosbarco “Giant Two”. L’operazione, era stata sospesa all’ultimo momento, per decisione dello stesso Badoglio, che non garantì agli Alleati la difesa dei campi di volo dalla reazione tedesca. MacFarlane e Taylor e il loro seguito - che includeva i due ministri politici residenti presso il Comando Militare Alleato di Algeri – lo statunitense Robert Murphy e il britannico Harold Macmillan – arrivarono a Brindisi il 13 settembre. Fin dai primi contatti, i rappresentanti del Governo italiano, in particolare il maresciallo Badoglio, espressero il vivo desiderio che le Forze Armate del Regno potessero dare il loro contributo allo sforzo bellico contro la Germania. Quest’ultima, dopo la defezione dell’alleato, avevano assunto nei riguardi dell’Italia, con la giustificazione di aver commesso un “mescino tradimento”, un atteggiamento altamente aggressivo, che giustificava il diritto di reagire con le armi, anche se ufficialmente non esisteva uno stato di guerra tra le due nazioni. Per tale motivo, fin dall’11 settembre – come aveva comunicato Badoglio ad Eisenhower – il Comando Supremo, installatosi ad organici ridotti a Brindisi, indirizzò ai tre Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate la lettera n. 1015, in cui, prendendo atto della situazione creatasi con i tedeschi, era ordinato di reagire contro di essi in collaborazione on gli anglo-americani. Purtroppo, si trattava pur sempre di una direttiva molto tardiva, sulla quale, giustamente è stato scritto:[8] Se ci fossero stati dubbi da parte alleata, questo messaggio chiariva che non solo al momento dell’armistizio non erano state emanate direttive per combattere i tedeschi, ma che ancora l’11 gli ordini erano di e non di attaccarli. In realtà le direttive erano state compilate, ma per ordine di Badoglio il generale d’armata Vittorio Ambrosio, Capo di Stato Maggiore Generale, non trasmise l’odine di far entrare in vigore il fondamentale Promemoria n. 1 del Comando Supremo, che spiegava (secondo le direttive degli anglo-americani consegnate dopo la firma dell’Armistizio del 3 settembre), come combattere i tedeschi, se non quando il Re d’Italia, Vittorio Emanuele con la corte, i Ministri militari del Governo e Capi di Stato Maggiore, in fuga da Roma, ordinando di non difendere la Capitale, si trovavano al sicuro.[9] Tre giorni più tardi all’entrata in vigore dell’ordine di combattere i tedeschi, il 14 settembre, con nuova lettera n. 1104 il Comando Supremo impartì disposizioni più articolate. Nel documento era specificato tra l’altro che, date le condizioni in cui si trovava l’Esercito, carente di armi, munizioni, mezzi di trasporto, e perfino di scarpe per i soldati, si doveva far fronte alle deficienze “essenzialmente con ripieghi dettati dalla volontà”, senza insistere troppo presso gli Alleati sulla necessità dei propri bisogni per non “menomare il valoro del nostro concorso”.[10] Il generale Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, che era stato il maggiore artefice della mancata difesa di Roma e di aver consigliato la fuga del Re e degli altri Capi Militari, diramò istruzioni particolareggiate al 51° Corpo d’Armata, appena costituito in Puglia quale unità combattente, al comando del generale Giuseppe De Stefanis. Tuttavia, come vedremo, a causa degli avvenimenti che seguirono, questa grande unità, costituita con le Divisioni di fanteria Mantova, Piceno e Legnano, fu smembrata ancor prima di poter entrare in azione. Un pessimo giudizio sull’efficienza delle Forze Armate italiane fu espresso, dopo l’arrivo a Brindisi, dal generale MacFarlane. In seguito ad un primo colloquio con il generale Ambrosio, nella sede del Comando Supremo, MacFarlane inviò al Comando in Capo Alleato di Algeri un rapporto dal contenuto allarmante, con cui, denunciando le condizioni tragiche in cui si trovavano le divisioni dell’Esercito italiano, precisava: “L’apporto che unità italiane possono dare alle operazioni alleate è praticamente nullo”. E concludeva: “Non possiamo trarre nessun vantaggio virtuale dall’Esercito, fatta eccezione forse per i soldati che potremmo impiegare come lavoratori forzati nei porti e lungo le vie di comunicazione”.[11] In effetti, le condizioni in cui versava almeno una parte delle Forze Armate rimaste a disposizione di quello che venne chiamato “Il Regno del Sud ”, erano assolutamente tragiche. Soltanto la Regia Marina – che nell’ultimo anno di guerra aveva risparmiato il grosso della Flotta da Battaglia nell’attesa di un ultimo ipotetico scontro decisivo (anche perché, nella previsione di un esito sfavorevole della guerra quasi certamente, da parte del Governo, del Comando Supremo e dello stesso Supermarina, il Comando Operativo dello Stato Maggiore della Marina, venne formulata l’ipotesi di usare le navi come merce di scambio armistiziale) – poteva ancora disporre, tolte le navi internate alle Isole Baleari (un incrociare, tre cacciatorpediniere, tre torpediniere e una motozattera), di un nucleo poderoso di unità da combattimento, costituito da: cinque corazzate, otto incrociatori, nove cacciatorpediniere, ventisette torpediniere, diciannove corvette, trentotto sommergibili, oltre a decine di unità minori, ausiliarie e mercantili. Forze che gli anglo-americani poterono subito disporre e che, in seguito ad accordi, poterono essere impiegate per i loro traffici militari; badando bene, però, che risultassero di matura modesta nei compiti offensivi, riservati soltanto al naviglio sottile, per non influire, alla resa dei conti (anche per le richieste di riparazioni di guerra che arrivavano pressanti dalle potenze che avevano combattuto l’Italia, ossia Francia, Grecia, Jugoslavia e Unione Sovietica), sulle condizioni armistiziali in favore dell’Italia, nonostante l’impegno assunto con il Memorandum di Quebec. Le possibilità della Regia Aeronautica, logorata da una generosa opera di interdizione per difendere i cieli nazionali e per l’attacco ai porti e ai convogli di rifornimento e d’invasione degli Alleati, risultavano assai scarse. Ciò era dovuto al fatto che per la tardiva diramazione degli ordini (per agevolare la fuga del Re con il suo patetico seguito da Roma), verificatisi nella confusione e nel fuggi fuggi dell’Armistizio, pochi velivoli avevano ricevuto e attuato l’ordine di raggiungere le basi della Sardegna e della Puglia, ancora sotto controllo italiano. Di quei velivoli che si erano sottratti alla cattura o alla distruzione da parte dei tedeschi, pochissimi furono poi in grado di riprendere il volo e di svolgere azioni di guerra, per la mancanza di officine di riparazione e di pezzi di ricambio, trovandosi le fabbriche dell’industria aeronautica italiana tutte in territorio controllato dall’ex alleato.[12] Conseguentemente, per tenere in linea un’esigua forza (in cui facevano difetto anche gli equipaggi) – che fu impiegata dalla Puglia a sostegno dei presidi di Cefalonia e di Corfù, e poi per rifornire i nuclei combattenti italiani che resistevano nei Balcani, sulle montagne dell’Epiro e del Montenegro – fu necessario trovare il materiale occorrente ricavandolo dagli apparecchi già danneggiati o dai molti residuati di guerra in Sicilia e Tunisia. Le condizioni del Regio Esercito erano, purtroppo, ancora più critiche di quelle già tragiche dell’Aeronautica, perché le sue strutture si trovavano nello sfacelo quasi totale. Sebbene disponesse di circa 400.000 uomini (meta dei quali in Sardegna e in Corsica), ripartiti in nove divisioni di fanteria, dodici divisioni costiere, e due brigate costiere, raggruppate in cinque corpi d’armata, lo stato di efficienza di queste forze ancora abbastanza valide come quantità – anche se ben lontane dalle sessantuno divisioni e dagli innumerevoli reparti autonomi esistenti all’inizio della guerra, il 10 giugno 1940 – risultava in realtà al più basso livello di efficienza , e non soltanto per mancanza di armi, munizioni e mezzi di trasporto. Lo stesso aspetto malandato dei soldati denunciava un intollerabile grado di disorganizzazione e, soprattutto, di demoralizzazione e di indisciplina, come dimostrava il concetto del “tutti a casa”, che era stato, indubbiamente, una delle cause principali del disastro militare subito nei giorni dell’armistizio, e che continuò a verificarsi con diserzioni per il resto della guerra. In definitiva, l’organizzazione militare dell’Esercito era completamente inutilizzabile ai fini bellici, si da deludere fortemente gli anglo-americani, ai quali il Governo Badoglio, tramite il generale Giuseppe Castellano firmatario dell’Armistizio a nome del Capo del Governo, aveva sperato di poter dare dimostrazione di qualche efficienza. Si verificò invece tra gli Alleati una penosa impressione ed un grave senso di sfiducia nei confronti degli italiani, determinati in gran parte dalla mancata difesa di Roma – che era uno dei cardini su cui essi contavano per una rapida avanzata lungo la Penisola – e dal deleterio comportamento, spesso irresponsabile e a volta anche codardo, di interi reparti, che si erano arresi ad un nemico inferiore, senza praticamente sparare un colpo di fucile, per tentare di salvare la pelle. Pertanto, mentre il Comando Supremo e lo Stato Maggiore dell’Esercito elaboravano complicati piani di guerra contro i tedeschi, il maresciallo Badoglio e il generale Ambrosio, non volendosi rendere conto della realtà di quella situazione di sfacelo, tentavano di suggerire agli anglo-americani la strategia da seguire per raggiungere Roma. Fa fede di questa presunzione italiana la testimonianza rilasciata dal generale MacFarlane, il quale nella sua relazione del 14 settembre, parlando delle sollecitazioni avanzate dai responsabili italiani, annotò: “Tutti dicono che avremmo dovuto sbarcare a nord invece che a sud di Napoli. Su questo punto io dico loro che non sanno niente e di star zitti”.[13] Nonostante le richieste avanzate da Badoglio e da Ambrosio, gli Alleati si rifiutarono di fornire all’Esercito italiano i mezzi necessari per ricostituire e per sostenere un’organizzazione militare più efficiente. Essi giustificarono inizialmente il loro atteggiamento con ragioni strettamente economiche e con la mancanza di mezzi navali necessari per far affluire in Italia le efficienti unità della Sardegna (quattro divisioni). In realtà, come avremo modo di analizzare, ciò era dovuto a fattori politici, in quanto l’Italia era ancora considerata nazione vinta che, come disse alla Camera dei Comuni Winston Churchill, per riscattarsi doveva trovare il modo “di guadagnarsi il biglietto di ritorno”. Era questo un argomento sul quale il Primo Ministro britannico si mostrò inflessibile, tanto che in precedenza, il 9 settembre 1943, scrivendo al Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, di contare sulla “conversione dell’Italia in una forza attiva contro la Germania”, aveva specificato: “Sebbene non possiamo riconoscere l’Italia come alleata nel pieno senso della parola, siamo tutti concordi di permetterle di pagarsi il biglietto lavorando, e che questo utile servizio contro il nemico verrà non solo aiutato, ma ricompensato”.[14] Fu questa una brutta constatazione per il Governo del maresciallo Badoglio, per il Sovrano e per i Capi delle Forze Armate italiane, che si erano illusi, dopo il tragico 8 settembre, di essere stati accolti non più come nemici, ma addirittura, nel volgere di poche ore, come alleati degli anglo-americani. Questi, in realtà, dopo essersi illusi di poter impiegare una ventina di divisioni italiane contro i tedeschi, in modo da rendere il loro sforzo meno impegnativo nell’avanzata verso il nord della penisola, dimostrarono di non volere, almeno per il momento, una partecipazione significativa alle operazioni belliche del Regio Esercito, che chiaramente, ed anche saggiamente, non poteva essere gradita viste le condizioni di sfacelo in cui esso si trovava. “In sostanza gli Alleati preferivano ricevere la collaborazione [degli italiani] anziché in forma di combattenti dubbi, in forma di lavoro”.[15] Divenne questo, da parte Alleata e in particolare da parte britannica, l’unico modo accettabile di collaborazione delle Forze Armate italiane nel combattere i tedeschi. Ne conseguì che i “soldati italiani dovettero servire in qualità di facchini, conducenti di salmerie, artieri, manovali. Migliaia di giovani italiani vennero impiegati in questo umile lavoro, ossia spesso a fianco di negri, e solo, di raro, quando qualche comandante inglese comprendeva la necessità di nobilitare agli occhi degli italiani il compito che erano costretti a svolgere, in compagnia di alcuni inglesi”.[16] Per la mentalità dell’epoca, che non era da considerare soltanto di origine fascista, il fatto che i soldati italiani dovessero essere sorvegliati durante il lavoro anche da soldati di colore rappresentava una grave forma di offesa. Di ciò si fece portavoce lo stesso Comando Supremo, che il 3 ottobre 1943 incaricò il generale Castellano di intervenire presso il Comando in Capo Alleato, con la seguente richiesta:[17] Il personale della R. Marina, adibito allo scarico dei piroscafi anglo-americani a Brindisi, è sorvegliato nel lavoro, anche da gente di colore. Occorrerebbe che questo fatto, che genera commenti ed impressioni che non vanno a vantaggio del rendimento del lavoro, fosse evitato. Si rappresenta pertanto l’opportunità che militari di colore non vengano impiegati nella sorveglianza del personale italiano. Nonostante questo appello del Comando Supremo, la situazione non migliorò, anzi si fece ancora più critica, dal momento che ogni richiesta perché i problemi ed il prestigio italiano fossero maggiormente compresi restò inascoltata, così come inascoltate rimasero le molte proteste. Ne facciamo un esempio, in particolare per i sostenitori, del tutto ignoranti, del mito dei “liberatori dell’Italia” da parte degli Alleati, che invece erano i conquistatori e i padroni del nostro Paese: Il 29 settembre 1943 l’ammiraglio di divisione Giuseppe Fioravanzo, Comandante Militare Marittimo di Taranto, ed ex Comandante delle corazzate della 9a Divisione Navale, Vittorio Veneto, Littorio e Roma, dopo la requisizione della sua automobile di servizio, inviava al generale Palmer; Comandante Locale britannico, la lettera n. 143/RO, dall’oggetto “Arbitrarie iniziative di militari alleati”. Con essa venivano denunciati i principali incidenti provocati dai militari Alleati, sotto forma di: requisizioni arbitrarie di appartamenti, calcolati fino a quel momento in numero di 1.600; fermi abusivi di automezzi, molti dei quali arbitrariamente requisiti; tentativi di disarmo di militari italiani; aggressioni ai pacifici cittadini; uso indiscriminato delle linee telefoniche, sias militari che civili. Dichiarandosi molto rammaricato per quelle forme di prepotenza, che andavano a scapito della già “difficile collaborazione” con gli Alleati, l’ammiraglio Fioravanzo concludeva:[18] Tutte queste categorie di incidenti, cui non ho il potere di mettere un freno, hanno già creato una situazione molto critica, non solo nel campo spirituale, ma anche in quello delle possibilità di vita e di lavoro della Base Navale e della Provincia, rendendo il mio compito così difficile da non poter più a lungo mantenere le mie responsabilità di fronte al mio Governo e di fronte agli Alleati, cui il mio Governo ha accordata spontanea collaborazione. E questo Capitolo è solo l’inizio di una pagina tragica della nostra storia dell’Armistizio, come ho riportato nelle tre puntate del mio Saggio. Le correzioni sono state apportate al mio testo dell’equilibrato Redattore del Bollettino d’Archivio, il capitano di vascello Gian Paolo Pagano, e l’approvazione per la stampa, dopo attenta lettura, é del Direttore dell’Ufficio Storico della Marina Militare, ammiraglio di squadra Renato Sicurezza. [1] In effetti i tre Capi di Stato Maggiore erano già al corrente del Memorandum di Quebec fin dal tardo pomeriggio del giorno precedente: Le Memorie dell’ammiraglio de Courten (1943-1946), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1993, p. 213; Francesco Mattesini, L’armistizio dell’8 settembre 1943, Parte 1a, da Cassibile al Consiglio della Corona, Bollettino d’Archivio della Marina Militare, giugno 1993, p. 37: “La memoria del generale Alexander e i promemoria di Supermarina e del Comando Supremo”, p. 104-105: Allegato n. 3 (Promemoria per accompagnare le condizioni di armistizio presentate dal generale Eisenhower al Comandante in Capo italiano). [2] Francesco Mattesini, Lo sbarco degli angloamericani nella penisola italiana. Le operazioni “Baytown” e “Avalanche” – Settembre 1943.”, ARCHEOS, RiStampa Edizioni, Santa Ruffina di Cittaducale (Rieti), 2022. [3] Archivio Stato Maggiore Esercito Ufficio Storico (da ora in poi ASMEUS), fondo H. 5, b. 50/RR. [4] Ibidem, telegramma n. 39. [5] Per un approfondita analisi ufficiale, e senza manipolazioni o imprecisioni, vedi Francesco Mattesini, L’Armistizio dell’8 Settembre 1943 (1a parte). Da Cassibile al Consiglio della Corona. La memoria del generale Alexander e i promemoria di Supermarina e del Comando Supremo, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, giugno 1994; vedi anche Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre”, I Tomo, “Le ultime operazioni offensive della Regia Marina e il dramma della Forza Navale da Battaglia”; II Tomo, “Documenti”, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 2002. Entrambe le pubblicazioni contengono moltissimi documenti, italiani e anglo-americani, in massima parte in fotocopia dall’originale. [6] ASMEUS, fondo Generale Castellano, b. 2238. [7] ASMEUS, fondo H. 5, b. 50/RR, messaggio n. 81. [8] Elena Aga Rossi, L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943; Roma, Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, 1993, p. 70. [9] Francesco Mattesini, 8 Settembre 1943. Dall'armistizio al mito della difesa di Porta San Paolo", RiStampa Edizioni, Santa Ruffina di Cittaducale (RI),) Aprile 2021, pagine 528. [10] ASMEUS, H. 5, b. 50/RR. [11] Vanna Vailati, La Storia nascosta, Torino, G.C.C., 1986,p. 236-238. [12] Secondo una situazione comunicata al Comando Supremo il 15 settembre 1943, su un complesso di 203 velivoli della Regia Aeronautica, 86 erano di tipo antiquato e da trasporto. Restavano disponibili per azioni belliche 117 velivoli, dei quali 62 erano da caccia, 20 aerei d’assalto, 20 bombardieri, sette aerosiluranti, e otto tuffatori. [13] Vanna Vailati, La Storia nascosta, cit., p. 238. [14] Winston Churchill, La seconda guerra mondiale – La campagna d’Italia, parte V, Volume I, Milano, Mondadori, 1951, p. 146. [15] Agostino degli Espinosa, Il Regno del Sud, 8 settembre 1943 – 4 giugno 1944, Roma, Migliaresi, 1946, p. 79. [16] Ibidem. [17] ASMEUS, fondo Generale Castellano, b. 2235. [18] ASMEUS, Diario Storico Comando Supremo, ottobre 1943, allegato n. 161, b. 3051. Edited November 3, 2023 by Francesco Mattesini Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted November 10, 2023 Author Report Share Posted November 10, 2023 (edited) Per una chiara comprensione di quali fossero le leggi di guerra nei riguardi dei combattenti non in regola con le norme internazionali, vediamo quali furono gli ordini impartiti dall’Alto Comando tedesco all’indomani della sedizione italiana nei confronti delle Potenze dell’Asse. Il 9 settembre 1943, il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, Capo delle Forze Armate del Reich (Oberkommando der Wehrmacht - OKW), impartì l’ordine 2 (S) 36/60, riguardante il trattamento da usare nei confronti dei soldati italiani catturati, nel quale era specificato che essi dovevano essere considerati prigionieri di guerra, da impiegare quali tecnici e operai nelle costruzioni belliche e negli apprestamenti difensivi. Ma poi, in seguito ad episodi di resistenza armata da parte delle truppe italiane, senza che fosse sta dichiarata la guerra, il 15 settembre il feldmaresciallo Keitel emanò un nuovo ordine n. 005282/43, in cui revocandole precedenti disposizioni, era prescritto: “per ordine del Führer”, di passare per le armi, dopo ultimatum non accolto e corte marziale sommaria, tutti “i Comandanti e gli Ufficiali italiani responsabili della resistenza”, perché considerati “Franchi tiratori”. Questa estrema misura, purtroppo pienamente conforme alle norme di guerra approvate dalla Convenzione di Ginevra, fu attuata da quel momento con estrema determinazione, in conformità con quella che il Comando della Wermacht denominò Operazione “Verrat”, ossia tradimento. Al minimo accenno di resistenza italiana furono effettuate pertanto esecuzioni in massa, le più atroci delle quali furono i massacri di Cefalonia (ove una guarnigione di ben 12.000 uomini della 33a Divisione di fanteria Acqui, al comando del generale Antonio Gandin, fortemente attestati, fu sopraffatta da appena 2.000 soldati tedeschi), di Corfù, di Santi Quaranta, di Coo, e dei 300 ufficiali della Divisione Bergamo, passati per le armi in Croazia. Purtroppo, il maresciallo Badoglio, per quanto a Malta fosse stato sollecitato a lungo dal generale Eisenhower, non prese allora alcun impegno sulla dichiarazione di guerra alla Germania, in modo da legalizzare le posizioni dei soldati italiani facendone cessare i massacri indiscriminati. Personalmente, il maresciallo era propenso a dichiarare la guerra all’ex alleato, se non altro per dimostrare agli anglo-americani che il suo Governo, quello legittimo italiano, era completamente schierato con le Nazioni Unite. Ma essendo vincolato dalle decisioni del Re Vittorio Emanuele III – che intendeva continuare a patteggiare le condizioni armistiziali imposta all’Italia dagli Alleati, l’impiego bellico delle Forze Armate, e lo stesso destino della Monarchia che sarebbe stato reso precario dalla costituzione di un Governo ad ampia base democratica – evitò di pronunciarsi favorevolmente. Gli anglo americani, oltre ad insistere perché il Governo del maresciallo Badoglio assumesse un chiaro atteggiamento antifascista e democratico, esercitarono pressioni perché Vittorio Emanuele III abbandonasse i titoli di Imperatore d’Etiopia e di Re d’Albania, e perché lasciasse aperta la strada ad una possibile abdicazione in favore del figlio Umberto, erede al trono d’Italia, o di suo nipote, che apparivano meno compromessi nei confronti del passato regime fascista. Ma erano imposizioni che il Sovrano non intendeva accettare, e per difendersi si ostinò a rifiutare quella che era la clausola dell’Armistizio più importante affinché l’Italia divenisse, di fatto, “cobelligerante” con le Nazioni Unite: la dichiarazione di guerra alla Germania, alla quale, soprattutto il Governo britannico, non intendeva assolutamente rinunciare. Comunque, a Malta, era stato scritto con grande realismo:[1] Il Governo italiano perdeva completamente la sua sovranità … non disponeva di forze armate, né di rappresentanze diplomatiche, cessava il suo diritto di battere moneta, e veniva messo agli ordini del Comando Militare Alleato. Se di sovranità ancora si poteva discutere, essa era divenuta uno strumento nelle mani del vincitore, utile a questo per eseguire le sue volontà, senza apparirne il responsabile. Il cittadino italiano, poi, perdeva, ad opera dei liberatori, quella minima libertà di stampa che aveva raggiunto dopo il 25 luglio, perdeva la facoltà di lasciare il territorio nazionale secondo le provvidenze legislative del suo paese, ed infine cessava dal diritto di commerciare con l’estero. Tutte le sue ricchezze private e pubbliche cadevano sotto la podestà sovrana del vincitore, e nemmeno il diritto di abitare nella sua casa gli poteva apparire certa. Mai, salvo che in guerre coloniali, il vincitore aveva esercitato il diritto della forza con tale ampiezza. Lo stesso Sovrano, i membri della corte e quelli del Governo, nonché i capi militari, erano come reclusi, ai quali nera fatto divieto di circolare liberamente nei territori occupati senza l’autorizzazione delle autorità anglo-americane: come chiaramente è dimostrato dalle due lettere del 3 ottobre e del 10 ottobre 1943, inviate al generale Castellano per essere portate all’approvazione del Comando Alleato di Algeri: ossia i viaggi che il Principe Umberto di Savoia, il Duca d’Aosta, il Duca di Genova, e il maresciallo Badoglio voleva compiere per raggiungere da Brindisi altre località dell’Italia, come Napoli, della Sicilia e della Sardegna occupate dagli Alleati. L’ammiraglio Raffaele de Courten ebbe parole molto dure per come gli anglo-americani avevano gestito tutta la questione dell’Armistizio, sostenendo:[2] Certi si è che la presentazione dell’”armistizio lungo” da parte degli Alleati è stato un gesto che, nei riguardi dell’impostazione del documento e delle sue clausole militari, è risultato poco aderente al tradizionale spirito di lealtà, di far play degli anglo-americani; gesto che, a prescindere dall’iniziale imbarazzo del generale Eisenhower, al pari di qualche altro compito successivamente, li pone, sul piano morale e storico, in una situazione sgradevole. Da parte italiana esso fu subito, e non poteva essere altrimenti, come una nuova prova da superare, come una conferma di quanto sia stato duro risalire una china , al fondo del quale si è precipitati. [1] Agostino del Espinosa, Il Regno del Sud, cit., p. 85. [2] USMM, Le memorie dell’ammiraglio de Courten, cit., b. 322. Edited November 10, 2023 by Francesco Mattesini Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
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