Francesco Mattesini Posted November 9, 2018 Report Share Posted November 9, 2018 (edited) Nella mia pagina di Academia Edu ho postato un argomento di grande importanza storica, assolutamente inedito, realizzato tramite le ricerche effettuate nel corso degli anni negli Archivi degli Uffici Storici dell'Esercito, Marina e Aeronautica. E' mia intenzione di riportarlo anche nel nostro sito privo di fotografie. Buona lettura. Da Cobelligeranti ad Alleati?La Regia Marina e la dichiarazione di guerra al Giapponedi Francesco Mattesini https://independent.academia.edu/FrancescoMattesini Edited November 14, 2018 by Francesco Mattesini Giuseppe Garufi 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted November 9, 2018 Author Report Share Posted November 9, 2018 Da Cobelligeranti ad Alleati?La Regia Marina e la dichiarazione di guerra al Giappone di Francesco Mattesini L'ultima dichiarazione di guerra la facemmo il 14 luglio 1945, contro il Giappone[1]. L’intento del governo Parri era di ottenere in questo modo il superamento della condizione internazionale di Potenza “cobelligerante” e il riconoscimento dello status di Alleati e di Vincitori. La proposta era stata formulata per la prima volta il 17 marzo 1944 da Badoglio in un colloquio informale col capo della Commissione Alleata di Controllo, generale MacFarlane[2], e successivamente ripresa nell’ottobre 1944 dall’ambasciatore italiano a Washington Alberto Tarchiani. Più ancora dei governi italiani, però, l’idea fu fortemente sostenuta dagli Stati Maggiori, i quali ritenevano di poter assicurare, sia pure col supporto logistico alleato, una partecipazione più o meno diretta di unità terrestri, navali e aeree alle operazioni contro il Giappone, allo scopo di riprendere prestigio internazionale e influenza politica interna. Inizialmente si era addirittura pensato di reclutare tra i nostri prigionieri negli Stati Uniti un Corpo di spedizione di 2 Divisioni, inquadrate dagli stessi generali catturati in Africa Settentrionale. A questo proposito Palmiro Togliatti avrebbe espresso la valutazione che il governo Bonomi intendesse “costruirsi una Crimea a suo uso e consumo” [3].Qui esaminiamo in particolare i piani della Regia Marina, che a seguito dell’armistizio aveva consegnato le unità maggiori agli Alleati, conservando solo il naviglio leggero da loro autorizzato.[4] Le navi da battaglia erano rimaste confinate a Malta e nei Laghi Amari del Canale di Suez, mentre col tempo agli incrociatori era stato permesso di svolgere qualche missione bellica in Oceano Atlantico, per intercettare, senza alcun esito, le navi corsare tedesche che trafficavano col Giappone, oppure nel Mediterraneo per rimpatriare i prigionieri di guerra e trasportare merci, compreso il sale, dalla Sardegna al Continente.Nel frattempo gli alleati realizzavano le loro operazioni anfibie e di appoggio d’artiglieria navale sulle coste del fronte terrestre italiano, scortavano i loro enormi convogli attraverso il Mediterraneo, senza che nessuna nave italiana vi partecipasse. Alle unità di scorta della Marina italiana erano solo permessi incarichi sussidiari, e la scorta di piccoli convogli locali, da Palermo a Napoli e da Augusta a Taranto. E ciò non poteva non deprimere il morale degli ufficiali e degli equipaggi delle unità navali principali, trattenute in quarantena nei porti.Nonostante la constatazione che praticamente le Forze Armate italiana erano in mano agli anglo-americani, tra difficoltà di ogni genere, ma soprattutto allo scopo di cercare con una loro attività di ottenere dagli Alleati al tavolo della pace condizioni più favorevoli per l’Italia, che era pur sempre considerata nemica, si profilò, nel campo delle ipotesi, la possibilità di una partecipazione, soprattutto della Marina, ad operazioni belliche nell’Estremo Oriente, contro i giapponesi, che erano stati alleati. Pertanto furono iniziati con i rappresentanti in Italia delle marine britannica e statunitense, con scambi di vedute tecniche, intesi ad esaminare le caratteristiche delle unità navali italiane e a determinare l’entità dei lavori da compiere per attrezzarle all’impiego operativo in una guerra oceanica in Estremo Oriente. Ma, per conoscere quali furono le difficoltà incontrate e l’esito delle richieste italiane presso gli Alleati, andiamo per ordine.Per una dichiarazione fatta alla Camera dei Comuni dal Primo Ministro britannico Winston Churchill il 10 marzo 1944, in Italia si ebbe l’illusione che alla R. Marina sarebbe stato concesso di partecipare alle prossime operazioni degli Alleati, e si formò quindi l’idea che, oltre ad operare nei mari europei, si sarebbe potuto partecipare alle operazioni contro il Giappone, che era stato un alleato dell’Italia e nei riguardi del quale, anche per effetto morale e un certo pudore, non era stata trasmessa ufficialmente alcuna dichiarazione di guerra. In realtà si sbagliavano poiché gli anglo-americani, dopo aver messo le mani sulla Flotta italiana, che in gran parte doveva essere consegnata alla nazioni vincitrici, cercavano di evitare “il prezzo politico”, che l’appoggio italiano avrebbe potuto comportare nel futuro, poiché esso “avrebbe legato le mani dei vincitori al tavolo della pace”Inoltre, la delusione degli Alleati nel mancato appoggio italiano allo sbarco di Salerno, che era il motivo per cui era stato deciso da fare quell’operazione anfibia (Operazione “Avalance”), che si era impantanata per venti giorni nelle spiagge per la pronta ed efficace reazione tedesca, per poi trovarsi impastoiati sul fronte di Cassino fino alla fine di maggio 1944, fu tale da minare la loro fiducia verso qualsiasi opera di riorganizzazione militare richiesta dagli italiani. Gli anglo-americani dubitavano della “validità militare” e del “contributo” che dalla riorganizzazione delle Forze Armate italiane sarebbe derivato.[5] Infine, con la delusione della Campagna d’Italia i britannici cercarono in tutti i modi di far pagare agli italiani quanto avevano dovuto sopportare durante il periodo fascista e le perdite subite in tre anni di guerra. Hanno scritto al proposito gli storici statunitensi che “le preoccupazioni provocate dalla flotta italiana avevano fatto sorgere nell’animo britannico il desiderio di vendetta, e l’amara esperienza di Churchill e Eden [Ministro degli Esteri] avevano fatto loro sposare la tesi di una pace punitiva per l’Italia”.[6] In definitiva, poiché anche le altre nazioni che avevano combattuto contro l’Italia desideravano metterla in ginocchio, e spartirsi il bottino, gli Alleati, come ha scritto lo storico Ellwood, pertanto “si rifaranno sempre per intero alle condizioni previste dallo strumento di resa [firmato a Malta dal maresciallo Badoglio il 29 settembre 1943] e considereranno l’Italia come un nemico sconfitto o un’ex potenza dell’Asse”.[7]Ma tutto ciò a Roma non era stato ben compreso, sebbene ve ne fossero tutti gli indizi come quello della annunciata consegna da parte britannica delle navi italiane all’Unione Sovietica del 2 marzo 1944, denunciata da Radio Londra dopo una dichiarazione del Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, ma subito dopo rettificata anche per le proteste del Governo italiano. E si continuava a premere in continuazione, facendo irritare gli Alleati, per aver il via libera per partecipare attivamente alle operazioni per la liberazione dell’Italia e per ottenere dagli quel consenso di alleanza che, nelle condizioni fissate, essi non erano intenzionati a concedere. E non si aspettavano neppure quello che sarebbe successo quando con il Trattato di pace di Parigi, nel 1947, gli Alleati presentarono il conto, senza fare all’Italia troppi sconti, e in cui delle tre Forze Armate la Marina dovette pagare lo scotto maggiore, cedendo molte navi alle nazioni vincitrici, mentre fu preteso che le grandi e moderne corazzate Italia e Vittorio Veneto, che dovevano andare come preda di guerra a Stati Uniti e Gran Bretagna, venissero smantellate nei cantieri italiani, lavori che si conclusero nel 1951.Inutili risultarono pertanto gli studi per una partecipazione italiana alla guerra contro il Giappone che, iniziati seriamente nel settembre 1944 e terminati ai primi di agosto 1945, come vedremo, non ebbero neppure la soddisfazione di essere ufficialmente presentati agli Alleati, e infine ricevettero un “no” secco quando fu fatto un tentativo in forma ufficiosa.La formula della cobelligeranza concessa all’Italia dagli Alleati, e che si riteneva a Roma che sarebbe poi stata una forma di alleanza, restò una formula di compromesso. Essa non cambio lo status dell’Italia, ormai definito nelle relazioni internazionali e nella politica militare tra britannici e statunitensi.***Il 26 settembre 1944 il Presidente Roosevelt e il Primo Ministro Churchill si incontrarono in Canada, a Hyde Park presso Quebec per poi rendere pubblica una dichiarazione comune nei riguardi del popolo italiano al quale, esprimendosi con un certa simpatia si riconosceva lo sforzo che l’Italia stava facendo nel comune impegno di combattere la Germania, affermando che agli italiani sarebbero state offerte “maggiori opportunità di prestare la loro opera per la disfatta del comune nemico”. E nel parlare dei “provvedimenti per la ricostruzione dell’economia italiana” si concludeva con: “Questi provvedimenti devono essere considerati anzitutto come un mezzo militare per permettere all’Italia ed al suo popolo di impegnare in pieno le loro risorse nella lotta per sconfiggere la Germania e il Giappone”.[8]Questa dichiarazione congiunta dei due capi alleati fu interpretata a Roma come se fosse stata seguita da una richiesta di auspicato intervento dell’Italia contro il Giappone da parte dagli Alleati.Infatti, il 30 settembre 1944 l’Ufficio Operazioni dello SMR Esercito, partendo dal presupposto che l’avvicinamento della fine della guerra in Europa contro la Germania e l’evolversi delle relazioni dell’Italia con le Nazioni Unite facevano sorgere il problema di un eventuale partecipazione dell’Italia alle operazioni contro il Giappone in Estremo Oriente, compilò un promemoria dall’oggetto: “Eventuale intervento italiano alla guerra contro il Giappone”.In esso, avente il solo scopo di prospettare la situazione derivante,si partiva dal concetto che il problema aveva aspetti politici, di competenza del Governo, e aspetti militari, di competenza in primo luogo dello SM Generale (Comando Supremo) e poi sulle sue direttive dei tre Stati Maggiori delle Forze Armate (Esercito- Marina – Aeronautica). Ad essi competeva lo studio del problema nei suoi aspetti generali. Tralasciando nel campo politico gli sviluppi favorevoli che potevano derivarne per l’Italia da quell’intervento militare, si rifacevano due ipotesi, ognuna delle quali dalle sensibilmente diverse conseguenze sul campo militare. La prima ipotesi derivante da un eventuale concorso all’Italia da parte delle Nazioni Unite; la secondo ipotesi accettazione da parte delle Nazioni Unite del concorso italiano a seguito delle insistenze del Governo di Roma. Tuttavia si face osservare che non appariva molto verosimile che gli anglo-americani, dopo aver tanto ostacolato l’Italia nella partecipazione alla liberazione dei territori occupati dai nazi-fascisti potessero offrirgli“la possibilità di accampare dei diritti al tavolo della pace”. Ne conseguiva, nella prima ipotesi, che soltanto un intervento delle Nazioni Unite avrebbe potuto sboccare il problema, offrendo all’Italia la possibilità della massima partecipazione possibile alla guerra contro il Giappone e pertanto con un adeguato concorso nella cessioni di mezzi e materiali necessari per armare le forze combattenti, e per addestrare il personale. Inoltre occorreva mettere le forze navali in stato di approntamento in particolare in base alle loro caratteristiche nautiche.Gli aspetti negativi dell’intervento italiano in Estremo Oriente, tra cui le difficoltà finanziarie, derivavano in particolare dalle “conseguenze materiali e morali di 4 anni di guerra seguiti dal crollo dell’8 settembre”; e dalla “instabilità politica ed economica interna; dalla “lontananza dello scacchiere d’operazione e il nessun interesse nazionale alla guerra in Estremo Oriente”. Si riteneva che l’approntamento e l’addestramento del personale, pur diverso tra le tre forze armate, avrebbe richiesto almeno un minimo di 6 – 8 mesi di tempo dal momento dell’accentramento dei mezzi, completamente nuovi ricevuti dagli anglo-americani, specialmente quelli anfibi, e che pertanto l’addestramento degli uomini avrebbe richiesto ancora più tempo. Trattandosi di realizzare operazioni anfibie lo sforzo maggiore dovevano fornirlo i mezzi navali, e quindi dalla Marina che al momento disponeva di due corazzate moderne (Italia e Vittorio Veneto), tre corazzate rimodernate (Giulio Cesare, Andrea Doria e Caio Duilio), otto incrociatori (Duca degli Abruzzi, Giuseppe Garibaldi, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli, Duca d’Aosta, Luigi Cadorna, Scipione Africano e Pompeo Magno), sette cacciatorpediniere, ventidue torpediniere diciannove corvette e numerosi mezzi minori.Nel trarre le conclusioni nel promemoria l’intervento in Estremo Oriente era ritenuto possibile soltanto in base ad un largo aiuto materiale che avrebbero fornito gli Alleati. Quindi partendo da alcune dichiarazioni espresse recentemente dai capi politici italiani ed Alleati, si invitava il Capo di SM Generale, maresciallo Giovanni Messe, ad interpellare i Capi di SM delle tre Forze Armate per averne il loro parere dal punto di vista delle possibilità e necessita, per poi dire chiaramente al Governo di prendere gli eventuali accordi con i Governi Alleati in modo da “concretare un programma nel campo politico e nel campo militare”, e predisporre i provvedimenti necessari nel campo interno della propaganda, del reclutamento e del trattamento per i militari, da avvicinare il più possibile a quello degli anglo-americani, con i quali avrebbero dovuto operare.[9]In seguito a questo promemoria il maresciallo Messe inviò al Capo del Governo una relazione con prot. 15660/Op, nella quale dopo aver lamentato i tanti vincoli imposti alla Forze Armate dalle delegazione Alleata in Italia, iniziando dalle conversazioni di Hyde Park tra Rossevelt e Churchill, circa “una più larga partecipazione alla guerra da parte italiana”, si poteva arguire che sarebbe stato permesso “all’Italia e al suo popolo di impiegare tutte le loro risorse nella lotta per sconfiggere la Germania e il Giappone”. Pertanto, ciò lasciava “sperare” che stesse per “aprirsi una nuova fase per le possibilità di realizzare lo sforzo bellico italiano, nel quale le prospettive politico-militari si amplino fino a comprendere l’eventualità della nostra partecipazione operativa alla lotta contro il Giappone”.[10]In un successivo promemoria del 2 ottobre 1944 si metteva però in rilievo quale sarebbe stata l’opinione negativa nel campo interno un intervento dell’Italia contro il Giappone, perché ciò avrebbe potuto provocare apprensioni e diffidenze che potevano sabotare la partecipazione italiana alle operazioni in Estremo Oriente. Da tutto ciò poteva derivarne nel campo internazionale la sensazione che l’Italia, prima ancora gli fosse richiesto, non fosse ben disposta a concorrere alle operazioni belliche degli Alleati in quel lontano settore di guerra dell’Oceano Indiano.[11]L’opinione della Stampa, come fu riportato il 3 ottobre da un promemoria dell’Ufficio Stampa dello SMG, era improntato, come aveva riferito in una conferenza del 28 settembre del Sottosegretario agli Esteri Giovanni Maria Visconti Venosta, a fare il massimo possibile per la partecipazione dell’Italia alla guerra contro il Giappone, anche se ancora non vi era stata dichiarazione di guerra, mentre in un ordine del giorno del Partito Liberale dello stesso giorno 28, si chiedeva che, dopo la sconfitta della Germania, l’Italia impegnasse in pieno le sue forze “nella lotta contro l’imperialismo giapponese”. Si avevano invece perplessità e riserve da parte dei partiti socialista, comunista, democristiano e sinistra cristiana, in particolare per le penose condizioni in cui si trovava la nazione, mentre favorevoli all’intervento erano liberali, azionisti, demoliberali e repubblicani.[12]Presupposti diplomatici e modalità dell’eventuale intervento contro il Giappone erano così tratteggiate in un promemoria del 13 ottobre 1944 dell’Ufficio Operazioni dello SMRE (Esame sommario delle nostre possibilità per eventuale partecipazione diretta alla guerra contro il Giappone):1°) richiesta – diretta od indiretta – di partecipazione italiana alla guerra contro il Giappone da parte delle Nazioni Unite, con conseguente adeguato appoggio morale e concorso di mezzi finanziari e materiali per la costituzione del Corpo di Spedizione;2°) partecipazione alle operazioni con invio di aliquote di forze terrestri, navali ed aeree combattenti.L’avverarsi di tali ipotesi limita essenzialmente e praticamente il problema nostro a:- personale per tutte e tre le FF.AA. - Unità navali per la Marina.Eventuali altre forme di partecipazione presenterebbero nel complesso minori difficoltà di realizzazione e, nel caso di sola partecipazione indiretta, sarebbero risolvibili senza sensibili difficoltà.Considerando che in quel momento 20.000 milioni di italiani si trovavano nella zona controllata dai tedeschi, oltre la linea Gotica, e restavano al sud 23.000 milioni di italiani dai quali attingere le forze destinate al Corpo dio Spedizione, non potendo contare sui circa 500.000 prigionieri nei campi di concentramento anglo-americani, nel documento si riteneva che potessero partecipare all’operazione da parte dell’Esercito non più di 70-80.000 uomini, a cui si dovevano aggiungere circa 25.000 uomini sulle unità navali della Marina e circa 4-5 centinaia di equipaggi dell’Aeronautica, “tratti esclusivamente dai volontari”. e “composti tutti da specializzati”.[13]Naturalmente, un questa situazione la parte su cui maggiormente contare per efficienza era costituita dalle unità della R. Marina, che tuttavia avevano alcune serie lacune per il fatto che una delle due corazzate moderne, la Italia (ex Littorio), essendo stata colpita il 9 settembre 1943 da una bomba guidata planante tedesca PC.1400/X, sganciata da un velivolo Do.217 del Gruppo III./KG.100 (maggiore pilota Bernard Jope) al largo dell’Asinara (mentre la corazzata Roma fu affondata), rientrando dalla zona in cui era stata confinata dai britannici dopo l’armistizio, ai Laghi Amari del Canale di Suez, necessitava “di riparazioni o almeno di lavori di manutenzione straordinaria”. E ciò doveva avvenire al più presto, per espellere le 800 tonnellate d’acqua che la corazzata aveva imbarcato attraverso la grossa falla aperta a poppa nello scafo dall’esplosione della bomba, (320 kg. di esplosivo amatolo) ed evitare ulteriori maggiori danneggiamenti all’Italia.Inoltre si affermava nel promemoria che non tutti i mezzi navali erano perfettamente idonei alla guerra oceanica per le loro caratteristiche nautiche, motivo per il quale si riteneva di poter fare affidamento soltanto sulle due navi da battaglia moderne (Italia e Vittorio Veneto) e su alcuni incrociatori. Pertanto il problema navale, necessariamente ridotto, non si presentava ugualmente del tutto facile rispetto a quanto poteva sembrare a prima vista, ma si riteneva che esso fosse risolvibile “con l’aiuto degli Alleati … in un ragionevole margine di tempo”. Gli Alleati dovevano anche fornire alle tre Forze Armate italiane dal punto di vista tecnico un “adeguato concorso morale e materiale”, in modo da far si che la preparazione, che includeva l’addestramento anche dei nuovi mezzi, da richiedere agli anglo-americani, sotto pagamento, si realizzasse in un periodo compreso tra gli otto e i dieci mesi.[14]La Marina, come fu riferito dal ministro Raffaele de Courten al CA britannico Charles Eric Morgan (Flag Officer Liaison Italy), si trovava in quel momento in condizioni difficili. E ciò a causa di una serie di proteste del personale imbarcato sulle sue siluranti nelle quali, alla fine di ottobre 1944, si era manifestato qualche gesto di indisciplina derivanti da “alcune dimostrazioni di protesta , contenute entro forme sufficientemente corrette, da parte del personale di leva”, che protestò per non aver ricevuto un sensibile provvedimento economico. Di questa situazione alcuni ufficiali Alleati erano apparsi preoccupati per i futuri atteggiamenti della R. Marina, dimostrandosi delusi sulla solidità, anche morale, della sua organizzazione, e da qualcuno si era accennato ad L’amm. de Courten, rassicurando sulla solidità della Marina, non mancò di far rilevare che, mentre all’Esercito e all’Aeronautica italiana era permesso di poter continuare a combattere sul suolo italiano, tramite i mezzi terrestri ed aerei ricevuti dagli Allearti, la Marina con il passare dei mesi nella sua collaborazione in campo marittimo, in particolare nei servizi di scorta, aveva veduto “progressivamente restringersi la portata della sua attività”, ora limitata all’esecuzione “di compiti sussidiari”. E tutto ciò non poteva non avere effetto deleterio sul morale degli equipaggi, con la minaccia di fargli “perdere un poco del mordente combattivo”.Si era arrivati al punto che mentre all’Esercito e all’Aeronautica erano stati dati i necessari automezzi, alla Marina erano stati negati perfino autocarri ed automobili per facilitare il trasporto del personale e il trasporto di materiale. Dallo sfogo dell’amm. De Courten, in una sua lunghissima esposizione delle necessità della Marina, si comprende come l’idea di affrontare una guerra con i giapponesi, senza un adeguato aiuto degli Alleati, che non intendevano concedere, fosse di realizzazione alquanto difficile.Per ultimo, il Capo di SM della Marina, accennò nella sua esposizione franca e sincera al rimpatrio delle sue due corazzate moderne trattenute ai Laghi Amari da ben quindici mesi, trascorsi per gli equipaggi senza neppure la possibilità di poter scendere a terra. Da ciò ne conseguiva che l’Italia e la Vittorio Veneto si trovavano prigioniere in una situazione che era praticamente una quarantena in una zona assolata e squallida, con grande sacrificio degli equipaggi che pertanto erano sostituiti frequentemente. In queste condizioni come si poteva pensare di andare a combattere in Estremo Oriente.[15]Nella sua risposta il contramm. Morgan, mostrando comprensione per la situazione della Marina italiana nel sentirsi impiegata negli ultimi dodici mesi soltanto in “compiti sussidiari”, riferì che la stessa situazione avveniva anche per le Marine anglo-americane, e ciò era dovuto al fatto che la guerra navale nel Mediterraneo e mari limitrofi era quasi alla fine, motivo per il quale aveva ricevuto da alcuni suoi comandanti la lamentela di dover trascorrere più tempo in porto invece che in mare. Tuttavia, occorre dire che anche con attività ridotta le navi di superficie degli Alleati continuavano a combattere nel Mar Ligure e nell’Adriatico Settentrionale, nonché nelle acque greche e dell’Egeo, mentre ciò non era concesso alle unità italiane. Riguardo a queste ultime, l’amm. Morgan scrisse nella sua risposta su un argomento che era molto significativo per scoraggiare ogni iniziativa italiana e non solo nei riguardi della guerra contro il Giappone, ma anche in quello che riguardava la consegna delle navi italiane alle nazioni che avevano combattuto contro l’Italia alla fine della guerra, e che si cercava di impedire con una attiva partecipazione alle operazioni contro i giapponesi:[16]In qualsiasi momento può giungere l’ordine per le Navi Britanniche di partire per un impiego più attivo in altre parti del mondo. Questo, sfortunatamente, non si può dire per le navi italiane. Ho esaminato sotto tutti i punti di vista la possibilità di impiegare le vostre navi fuori del Mediterraneo, ma non mi è stato possibile raccomandarne al mio Comandante in Capo l’impiego nei teatri di guerra orientali. La costruzione leggera delle navi italiane, la loro limitata autonomia e la loro dipendenza da sorgenti esterne per il rifornimento dell’acqua le rendono inadatte per operazioni nell’Oceano Indiano e non so di altra zona in cui potrebbero essere utilmente impiegate. Indubbiamente Lei ha pensato alla possibilità di impiegarle attivamente in Adriatico e in Egeo. A parte il fatto che vi è ampia disponibilità di navi da guerra britanniche in queste zone, per ragioni politiche ed altre di cui sono sicuro voi siete bene al corrente, non è desiderabile di impiegare adesso delle navi italiane in quelle zone. (…) Lei tratta poi del rimpatrio delle navi da battaglia … La dislocazione delle navi da battaglia viene decisa dai Capi di SM combinati ed è completamente fuori dalla mia sfera d’azioneRispondendo al CA Morgan con lettera del 6 gennaio 1945, l’amm. de Courten fece un ultimo tentativo per fare operare le sue navi in zone operative fuori dal Mediterraneo, scrivendo:[17]Circa un’eventuale partecipazione delle nostre navi alle operazioni in Oceano Indiano, se per alcune unità le caratteristiche costruttive o di autonomia dovessero sconsigliarne un impiego di prima linea, esse potrebbero sempre assolvere altri compiti importanti (scorte, servizi sussidiari, missioni addestrative ecc.): vorrei raccomandarle quindi di prendere in considerazione anche queste eventualità.Occorre ricordare, come da me a suo tempo scoperto e riportato in un saggio del Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare dei mesi di giugno e settembre 1993 dal titolo L’armistizio dell’8 settembre 1943, che de Courten aveva già pensato all’impiego contro il Giappone delle tre corazzate tipo “Littorio” (Roma, Littorio e Vittorio Veneto). Ciò avvenne in un suo promemoria dell’8 settembre del 1943 da inviare al Comando Supremo (ma non consegnato), compilato dopo che aveva ricevuto i documenti dell’Armistizio, che nel Promemoria “Dick” ordinavano che le navi italiane si trasferissero nei porti degli Alleati, dove avrebbero ricevuto le disposizioni per le loro assegnazioni del Comandante in Capo delle Forze Navali Alleate, amm. Andrew Browne Cunningham. Il ministro della Marina, dovendo consegnare le navi senza avere alcuna garanzia che poi sarebbero state restituite, restò talmente allarmato che nel promemoria, rimasto in suo possesso, tra l’altro sottolineo:[18]Non è inopportuno rilevare che la Flotta italiana costituirebbe un apporto di enorme importanza per la guerra nel Pacifico: basti osservare che gli Anglo americani possiedono in tutto solo sei [sottolineato nel testo] corazzate simili per grandezza, potenza e velocità alle nostre tre “Roma” e che queste navi in tanto valgono in quanto sono armate da chi le conosce a fondo, trattandosi di organismi estremamente complessi.E’ probabilmente per questo che nell’ultimo periodo esse sono state ostentatamente risparmiate. Ed è quindi su questo che bisogna far leva. E’ certo che, se fossero costrette a condizioni umilianti, le navi, nonostante ogni ordine in contrario, si autoaffonderebbero.Come si vede, per cercare di ammorbidire le dure condizioni dell’armistizio con una partecipazione attiva della R. Marina in operazioni belliche a fianco degli anglo–americani, nel promemoria dell’amm. de Courten si arrivava a proporre una partecipazione italiana alla guerra contro il Giappone, come d’altronde era allora auspicato dal Primo Ministro britannico Churchill che aveva proposto al Presidente statunitense Roosevelt di impiegare contro i giapponesi le corazzate del tipo “Littorio”.Infatti il giorno prima della compilazione del promemoria dell’amm. de Courten, ossia il 7 settembre 1943, il Primo Ministro britannico Winston Churchill, telegrafando il Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, si era detto propenso a dare un consistente aiuto agli statunitensi nella guerra contro i giapponesi, reso possibile dalla resa della flotta italiana. Il Primo Ministro britannico pensava di poter riunire una grossa squadra navale destinata ad operare nel Pacifico, includendovi le navi italiane. Dal momento che l’amm. Andrew Browne Cunningham, Comandante in Capo delle Forze Navali Alleate, aveva già chiesto all’amm. Ernest King, Capo di SM della U. S. Navy “di meditare su cosa veramente» gli fosse servito in quel momento e in qual modo i britannici avrebbero potuto «aiutarlo meglio”, ricevendone in risposta da King “le LITTORIO dovrebbero combattere con bandiera italiana e con equipaggi italiani”. Churchill riferì a Roosevelt, con un cattivo pizzico di ironia e senso significativo: Ho fatto notare che queste navi preziose devono avere equipaggi ben decisi, ma che forse si può aggiungere una manciata di italiani. Il fatto è che noi stiamo probabilmente ereditando due flotte, quella italiana e la nostra che la sorvegliava.[19] Questa dichiarazione del Primo Ministro britannico rappresenta la prova più eloquente che gli inglesi intendevano realmente impossessarsi delle navi italiane, in particolare delle corazzate tipo “Littorio”. Essi intendevano fornirle di propri equipaggi, anche perché, dalle parole stesse di Churchill, si comprende come, dimostrando grave pregiudizio, gli Alleati non ritenevano il personale italiano abbastanza capace per combattere i giapponesi.[20]Fatta questa parentesi, il 7 gennaio 1945 il Reparto Operazioni dell’Ufficio di SMRM presentò al Comando Supremo un promemoria dall’argomento “Unità navali che potrebbero operare in Oriente", da consegnare al Capo di SMG maresciallo Messe. In esso, previo miglioramento della difesa contraerea e al nuovo allenamento del personale, si riteneva di poter disporre per l’operazione Estremo Oriente delle due navi da battaglia Vittorio Veneto e Italia, riparando quest’ultima dai danni riportati dalla bomba speciale tedesca che l’aveva colpita il 9 settembre 1943. In quest’opera di convincimento dei britannici si contava sull’interessamento delle autorità navali degli Stati Uniti. Sarebbero stati poi disponibili, dopo il ripristino dell’efficienza in cui si riteneva sarebbero occorso almeno sei mesi, gli otto incrociatori Garibaldi, Abruzzi, Aosta, Montecuccoli, Eugenio, Scipione, Pompeo e Attilio Regolo. Quest’ultimo era rientrato nel gennaio 1945 dalle Isole Baleari assieme a tre cacciatorpediniere (Mitragliere,Fuciliere e Carabiniere). Le quattro navi dopo aver raccolto i naufraghi della corazzata Roma li avevano sbarcati a Porto Mahón (Minorca) per poi rimanervi internate.Condizioni per rendere gli incrociatori operativi, in particolare l’Eugenio che necessitava di grandi lavori per riparare i danni riportati nell’urto contro una mina nel febbraio 1944, erano il miglioramento radicale della difesa contraerea, dell’autonomia (in particolare per la produzione dell’acqua), e gli adattamenti necessari per la navigazione oceanica e in climi tropicali. Si contava poi su 10 CT e torpediniere di scorta, ma che potevano essere impiegati alle medesime condizioni delle altre navi con il miglioramento della difesa contraerea, dell’autonomia, della resistenza longitudinale e dell’abitabilità per il personale, che sarebbe stato costretto ad affrontare per giorni lunghe navigazioni.[21]Ma la possibilità di poter iniziare i lavori per mettere a punto le unità navali destinate all’emergenza contro il Giappone, erano rese impossibili se prima non fosse stato concesso urgentemente dalle autorità Alleate il rimpatrio dai laghi amari delle due corazzate tipo ”Littorio”, “per evitarne l’inevitabile lento deterioramento”.[22]E nel frattempo occorreva che fosse stata migliorata l’organizzazione per permettere di riportare in efficienza, negli arsenali italiani le riparazioni delle altre navi, che venivano effettuate con materiali di ripiego, ciò che portava ad un loro rapido declino di efficienza, nonostante gli sforzi compiuti dal personale di bordo per evitarlo.Occorreva pertanto chiedere agli Alleati una loro maggiore partecipazione per agevolare gli sforzi italiani, dal momento che nelle basi di Taranto e Napoli, dove si svolgevano i lavori, una forte aliquota di mano d’opera e di mezzi era a completa disposizione degli anglo-americani. Poiché anche il cantiere navale di Palermo era completamente nelle mani delle autorità statunitensi, occorreva chieder loro se la R. Marina potesse impiegarne almeno una parte per le riparazioni delle proprie navi. Infine, per la guerra nel Pacifico, si riteneva di dover chiedere il permesso per l’invio in loco di una ridottissima missione composta da uno o due ufficiali, allo scopo di rendersi conto delle difficoltà che avevano superato le forze navali alleate in modo da poter servire di studio nel caso le unità italiane fossero destinate a raggiungere quel lontano settore di guerra dopo la sconfitta della Germania.[23]Il 7 maggio 1945, il giorno della fine della guerra in Europa con la sconfitta della Germania, il 1° Ufficio dello SMG compilò un promemoria consegnato al maresciallo Messe, dall’oggetto “Eventuale concorso alle operazioni in E.O.”, nel quale il concorso italiano in quel lontano settore di guerra contro il Giappone “ritornava di attualità”. Ragion per cui occorreva aggiornare gli studi fatti nel passato e raccogliere materiale per poter eventualmente rispondere a quesiti richiesti dal Presidente del Consiglio, o dal Comitato di Difesa. Si specificava che qualsiasi tipo di intervento contro il Giappone sarebbe avvenuto “solo dopo una formale dichiarazione di guerra”, e in base alle seguenti possibilità di apporto: “per operazioni di prima linea (unità combattenti); per servizi ausiliari e di retrovia”. In definitiva, pur di partecipare in qualche modo alle operazioni belliche in Estremo Oriente, si accettava qualsiasi tipo delle condizioni che avrebbero posto gli Alleati. Specialmente l’eventuale concorso alle operazioni di prima linea veniva considerato come “quello più favorevole al nostro prestigio”. Tuttavia, come fu fissato in una annotazione al promemoria le possibilità di impiegare unità in combattimento apparivano remote poiché era noto che gli Alleati desideravano dagli italiani soltanto unità di servizio, come quella di servirsi del lavoro dei prigionieri di guerra.Nonostante ciò, nell’ambito dello SMG vi era la presunzione che gli Alleati, con la fine della guerra con la Germania e tutto lo sforzo bellico rivolto contro il Giappone per costringerlo ad una resa senza condizioni, avrebbero concesso all’Italia la fine della formula dello stato di “cobelligeranza”, accettando l’Italia come nazione alleata. In un promemoria del 9 maggio sulla Possibilità d’impiego delle FF.AA. Italiane, compilato per il maresciallo Messe, partendo dal concetto che con la fine della guerra in Europa in Italia le truppe combattenti non avrebbero più avuto possibilità d’impiego, con la “Probabile evoluzione dello Stato di cobelligeranza”, si offriva la possibilità di impiegare nell’Estremo Oriente “truppe combattenti ed ausiliarie nella guerra contro il Giappone”. I programmi di questo intervento dovevano essere portati, per carattere orientativo, alla conoscenza del Presidente del Consiglio, il quale a sua volta avrebbe dovuto mettere al corrente il Capo di SM Generale in modo da permettergli di “meglio organizzare le necessità politiche e le possibilità militari”.[24]Nella minuta del promemoria vi erano riportati altri importanti elementi orientativi (capisaldi) sulla partecipazione italiana alla guerra contro il Giappone che era ritenuta “possibile” con una preparazione completa e tempestiva, ritenuta “conveniente sia in vista delle contropartite che per essa si potranno ottenere dagli Alleati, sia perché potrebbe giustificare un piano di riarmo» delle Forze Armate italiane”. Si riteneva che il concorso alla causa degli Alleati potesse essere fornito “sul piede di piena parità morale”, esclusa quindi la mano d’opera italiana in zona di operazione, e che doveva essere “attuato solamente in seguito a precisi accordi sulle zone, con modalità stabilite da accordi presi tra i governi italiano e degli Alleati”. In definitiva, “per evidenti motivi morale” si doveva impiegare le tre Forze Armate soltanto in “operazioni di prima linea”, con personale qualitativo per lo più volontario, senza escludere però il concorso per servizi ausiliari e di retrovia. Erano condizioni irreali che gli Alleati, il cui desiderio era quello di punire al tavolo della pace l’Italia, consegnando parte della Flotta italiana alle nazioni cobelligeranti, e pretendendo il disarmo quasi totale delle sue Forze Armate non avrebbero mai accettato e neppure discusso. Ma quello che era da considerare irrealizzabile era l’idea che:[25]Gli Alleati dovranno ovviamente impegnarsi a fornire i materiali di equipaggiamento e di armamento occorrenti. In conseguenza di tale necessità e pur ammettendo la convenienza di istruttori e consiglieri inglesi o americani nelle unità di approntamento, è opportuno stabilire in modo esplicito che le nostre unità dovranno mantenere comandanti e inquadramento esclusivamente italiano:; e che il pesante controllo, tipo Gruppi di Combattimento, non deve più assolutamente verificarsi.Queste pretese, scritte dal Capo del 3° Ufficio dello SMG, ten. col. Nino Pasti, non furono inserite nel promemoria consegnato a Messe, perché evidentemente sarebbero apparse agli Alleati del tutto inaccettabili. Sebbene questo fosse il pensiero generale esistente nei vertici delle Forze Armate, non era proprio il caso di insistere di entrare in guerra contro il Giappone mancando di armi ed equipaggiamenti, che gli Alleati avrebbero dovuto fornire assieme all’addestramento, ponendo condizioni assolutamente irreali per una nazione che gli Alleati consideravano praticamente nemica, a cui era stata offerta la benevolenza di partecipare sotto stretto controllo alla guerra contro la Germania per la liberazione dell’Italia e la sconfitta del Fascismo; ma soprattutto ciò avvenne in termini di lavoro a cui agli anglo-americani faceva comodo, e che sfruttavano anche in altre zone con il contributo fornito dai prigionieri di guerra italiani.Con lettera “riservata personale” del 13 maggio 1945 sull’”Eventuale concorso alle operazioni in Estremo Oriente”, il nuovo Capo di SMG Claudio Trezzani, succeduto da 11 giorni al maresciallo Giovanni Messe, scriveva al Presidente del Consiglio e del Comitato di Difesa, Ivanoe Bonomi:[26]La fine della guerra in Europa e un’eventuale modifica alla posizione internazionale dell’Italia potrebbe dare un carattere concreto e immediato al problema di un nostro concorso alla guerra nel Pacifico.Questo concorso, dato che sia ritenuto utile dal Governo e richiesto od accettato dagli Alleati,potrebbe concretarsi in un contributo che va da un massimo di una partecipazione diretta al combattimento di tutte tre le FF.AA. a un minimo d’intervento di una sola di esse per servizi ausiliari.Soluzione più probabile può essere quella di un contributo diretto della Marina e forse di unità dell’Aviazione e di una utilizzazione di unità dell’Esercito in servizi ausiliari di seconda linea. In merito a quest’ultimo punto tengasi presente che gli Stati Uniti e presumo anche l’Inghilterra, si ritengono in diritto di inviare nel Pacifico volenti o nolenti le Unita Italiane di servizio formate nei loro territori con i nostri prigionieri di guerra. E’ lecito di credere che una decisione in questo senso sarebbe attuata informandone solo a cose fatte.A parte ogni considerazione, se un intervento nostro fosse possibile, è indispensabile conoscere in tempo la natura, l’entità, i limiti di tempo e l’aiuto che allo scopo ci daranno gli Alleati. Questo perché il lavoro da compiere soprattutto nelle attuali nostre condizioni non è facile in breve mentre sarebbe più che mai necessario che l’opera nostra riuscisse perfetta e tempestiva. Resto pertanto in attesa di conoscere le eventuali decisioni o intenzioni di V.E..Nella documentazione dello SMG non è stata rintracciata alcuna lettera di risposta a quanto scritto da Trezzani. E si arriva quindi al 13 luglio quanto il Reparto Operazioni dello SM Marina ritornò con un promemoria sulla “Partecipazione di unità navali nella guerra contro il Giappone", specificava le esigenze di approntamento e in primo luogo l’assoluta necessità di potenziare la difesa c/a, sottolineando che le moderne navi da battaglia alleate disponevano di almeno 80 mitragliere pesanti, contro le 28 delle due “Littorio”, troppo vulnerabili quindi ai micidiali Kamikaze. Si ripeteva poi che occorreva aumentare l’autonomia delle navi, che non erano state costruite per le lunghe navigazioni oceaniche, rinforzandone anche la tenuta al mare dell’Estremo Oriente, di violenza ben superiore a quella riscontrabile nel Mediterraneo. E a questo riguardo si riportava a conoscenza che l’efficienza dei 9 CT disponibili per la scorta alle grandi navi (Velite, Legionario, Mitragliere, Granatiere, Fuciliere, Carabiniere, Artigliere, Oriani e Grecale) era stata assai migliorata.[27]Occorreva, infine, il dover tenere presente la necessita di realizzare un intenso addestramento alle nuove armi, ed occorreva “in particolare adeguarsi alle forme d’impiego ritenute dagli Alleati opportune per la guerra contro il Giappone”.Come si comprende le difficoltà che si presentavano nel prepararsi ad una presunta guerra contro il Giappone, continuavano ad aumentare.Il promemoria si concludeva con le seguenti considerazioni:[28]Dai contatti finora avuti con le Autorità Alleate si è potuto comprendere che l’impiego delle nostre unità in eventuali battaglie contro forze giapponesi troverebbe difficoltà difficilmente sormontabili per la mancanza di navi portaerei italiane, e ciò perché gli Alleati ritengono indispensabile che le Marine della varie nazioni possano partecipare agli scontri con gruppi d’impiego completi dal punto di vista organico.Pare che per motivi di tale genere sia stata scartata la possibilità d’impiego contro le navi giapponesi, di gruppi francesi.[29]In definitiva l’impiego di unità navali italiane sarebbe prevedibile in operazioni che si svolgono in zone leggermente arretrate, quali ad esempio quelle delle Adamane, delle Nicobar e delle Indie Olandesi.Si tratterebbe appunto di zone nelle quali non sarebbero prevedibili vere e proprie battaglie navali ed aeree, ma poiché risulta che il numero delle unità alleate messe fuori combattimento dagli aerei suicidi è molto notevole e che pertanto nel rimpiazzo delle unità colpite gli Alleati debbono distrarre numerose unità da altri servizi, si ritiene che il concorso delle navi della Ra Marina riuscirebbe agli Alleati stessi molto efficace e gradito. Secondo una Situazione R. Marina compilata dal 1° Ufficio SM Generale, sarebbero state disponibili per operare in Estremo Oriente 4 navi da battaglia (Vittorio Veneto, Italia, Doria, Duilio), 8 incrociatori (Garibaldi, Abruzzi, Eugenio, Aosta, Montecuccoli, Regolo, Pompeo, Scipione – gli ultimi tre da considerare velocissimi supercaccia – 9 CT, dei quali 7 classe “Soldati”, 7 torpediniere scorta tipo “Aliseo”, e 14 sommergibili.[30]In un nuovo promemoria (N. 721) del 17 luglio il 3° Ufficio dello SMG ripeteva gli argomenti già espressi nelle varie relazioni, sostenendo la necessità di compilare studi e proposte particolari per ciascuna Forza Armata, con l’indicazione degli aiuti da richiedere agli alleati per l’approntamento del rispettivo contingente, e si attivarsi per orientare il governo circa il negoziato diplomatico sulla partecipazione italiana. Secondo il ten. col. Pasti occorreva poi di dover prospettare “il pericolo che la forte differenza fra la partecipazione effettiva e quella reclamizzata dalla stampa possa venire sfruttata da elementi politici contrariagli organi militari”, accusandone i vertici, come accaduto in passato, “di incapacità e incompetenza”. Pasti stigmatizzava che lo SMG fosse venuto a conoscenza di una decisione capitale come la dichiarazione di guerra al Giappone [14 luglio] “attraverso la stampa e la radio, nella stessa maniera e nello stesso momento nel quale ne era stato informato l’uomo qualunque della strada”.E di fronte a questa situazione, che minava il prestigio stesso delle Forze Armate, lo SM Generale era invitato a reagire non solo con “sterili proteste, ma con una sua attiva dimostrazione di autorità governativa della sua utilità, anzi della sua indispensabilità”.[31]Il Presidente del Consiglio Ferruccio Parri sottopose la questione sollevata dallo SMG al Comitato di Difesa che ne discusse il 20 luglio al Viminale, concludendo che la Marina era l’unica delle tre Forze Armate almeno teoricamente in grado di concorrere alle operazioni contro il Giappone.[32]Non però in operazioni dirette. Non solo perché le unità italiane non erano addestrate all’aerocooperazione con gli alleati, ma soprattutto perché questi ultimi non ne avevano bisogno. Finita la guerra in Europa, tutta la potenza aeronavale alleata era stata spostata nel Pacifico, e la marina giapponese, pesantemente attaccata nelle sue basi metropolitane, aveva perduto le ultime portaerei e tutte le corazzate tranne la Nagato (però danneggiata). Ormai le portaerei alleate servivano soltanto per l’appoggio aereo alle operazioni anfibie e per la difesa contro i Kamikaze. Proprio i successi dei Kamikaze nutrivano tuttavia le residue illusioni italiane di poter ottenere lo status di alleato approfittando delle prevedibili difficoltà operative che le forze anglo-americane avrebbero incontrato al momento dello sbarco in Giappone e della crescente pressione delle opinioni pubbliche per finire la guerra il più presto possibile. Soprattutto la Marina confidava di aver acquisito l’apprezzamento degli alleati e di poter essere preziosa in compiti di sostegno, in particolare nell’Oceano Indiano.[33] Ci si contentava anche del poco pur di esserci!Nel frattempo pure Aeronautica ed Esercito insistevano per partecipare al conflitto nel Pacifico. Con lettera n. 011705 del 24 luglio il Capo di SM dell’Aeronautica, gen. Mario Ajmone Cat, scriveva allo SMG sostenendo di poter inviare in Estremo Oriente una unità aerea su 2 Stormi da bombardamento e collegamento (4 Gruppi, 8 Squadriglie, 72 velivoli) e 3 da caccia e cacciabombardieri (9 Gruppi, 18 Squadriglie, 216 velivoli) interamente equipaggiati con materiale ceduto dagli Alleati, senza ricorrere agli aerei impiegati nella guerra di liberazione, tutti antiquati e logoratiInoltre si doveva richiedere all’Aviazione Alleata di fornire il materiale necessario per sostituzioni le riparazioni dei velivoli e per il funzionamento dei servizi tecnici e logistici indispensabili ed adeguati alle particolari condizioni di impiego, di lavoro o di vita in Estremo Oriente. In definitiva l’Aviazione italiana avrebbe fornito soltanto piloti ed equipaggi di volo e dei servizi a terra, mentre tutti i velivoli, il materiale, il munizionamento, doveva essere ceduto dagli Alleati, a cui competeva anche il compito dell’addestramento per personale italiano, (essenzialmente costituito da volontari), ai nuovi velivoli, di caratteristica prescelta dagli stessi Alleati. Qualora avessero accettato, si propone di porre alle loro dirette dipendenze pure 3 stormi da trasporto (6 gruppi e 12 squadriglie) con 108 velivoli (in parte recuperati dall’ex Aviazione Repubblicana), più un altro Stormo da trasporto di nuova costituzione, uno da caccia e un Raggruppamento idrovolanti.Proposte assurde, non solo perché la guerra contro il Giappone stava ormai per finire,ma anche perché a Roma, nel caos militare e nel clima politico sempre più rovente, nessuno le prendeva sul serio. Tuttavia, con lettera del 27 luglio 1945 (N. 21/MG) il Ministro della Guerra, Stefano Jacini, invitava il Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri Ivanoe Bonomi a indirizzareagli Alleati un’offerta almeno generica di collaborazione.In questa lettera, trasmessa per conoscenza anche al Capo di SM Generale e al Capo di SM del R. Esercito (gen. D. Raffaele Cadorna), Jacini richiedeva che al contribuito operativo con gli Alleati potesse partecipare un corpo di spedizione del R. Esercito, costituito, al comando di un generale, da una forza complessiva di 6-8.000 uomini esclusivamente di selezionati tra volontari infra-trentenni, incentivando il reclutamento con la propaganda radiofonica e politica. L’unità, che per il prestigio dell’Esercito doveva essere una rappresentanza di qualità, doveva essere pronto a muove in circa quattro mesi dopo aver ricevuto il necessario equipaggiamento di divise, armi, vettovagliamenti, e condizioni economiche pari a quelle delle truppe delle altre nazioni, in modo da consentirne un moderno funzionamento, e in grado di entrare in azione dopo un adeguato periodo di acclimatamento.[34]Nel frattempo si stavano facendo i primi timidi tentativi ufficiosi per far conoscere agli Alleati quali erano progetti e richieste italiane per partecipare la guerra contro il Giappone, portando a conoscenza quali sarebbero state le unità navali che avrebbero dovuto parteciparsi. Il 19 luglio de Courten incaricò, con istruzioni verbali, il Capo della Delegazione Navale presso l’Alto Comando Alleato a Caserta, CV Ferrante Capponi, di portare all’amm. John Henry Dacres Cunningham, Comandante in Capo della Mediterranean Fleet, o ad un suo rappresentante un messaggio personale del Ministro della Marina.Il comandante Capponi fu ricevuto dal Vice Capo di SM del Comando del Mediterraneo [CAHerbert Annesley Packer], al quale fece la seguente comunicazione: “L'Amm. De Courten mi ha dato istruzioni per comunicare all'amm. Sir John Cunningham che non gli ha inviato alcun messaggio ufficiale relativo alla dichiarazione di guerra d'Italia al Giappone perché questo è solo politico, è una comunicazione tra i governi deve svolgersi attraverso i normali canali diplomatici”. L’ufficiale britannico gli obietto subito “la irregolarità della procedura”. Il comandante Caponi insistette sostenendo che stava soltanto ubbidendo a degli ordini ricevuti, e riferì mettendo in chiaro che “l’amm. De Courten desiderava che la comunicazione fosse fatta il più direttamente possibile all’amm. Cunningham”. In risposta al suo promemoria, in cui si riportava che sarebbero state disponibili per essere impiegate contro il Giappone 2 navi da battaglia, 5 incrociatori con cannoni da 6 pollici (152 mm), 3 piccoli incrociatori, nove cacciatorpediniere, sei sloop e 10-12 sommergibili, il comandante Caponi ricevette il 24 luglio una breve comunicazione “nella quale si respingeva l’offerta dell’impiego delle Regie Navi in Estremo Oriente perché non adatte per la guerra oceanica. Non erano modernizzate e mandate in Estremo Oriente sarebbero state inutilizzabili”. Inoltre, l’ufficiale britannico disse chiaramente che se l’amm. de Courten avesse avuto l’intenzione di scrivere ufficialmente al Comandante in Capo, ossia l’amm.Cunningham, egli “sconsigliava la proposta”.[35]Su questo argomento che pose fine ad ogni illusione, l’amm. de Courten, a p. 563 della sua opera memorialistica, ha scritto con la sua solita ambiguità, da noi riscontrata in più occasioni: Vi furono molte indiscrezioni giornalistiche, dalle quali sembrava potersi dedurre che l’intervento delle unità italiane nella guerra contro il Giappone fosse già cosa stabilita e perfezionata. Ritenni quindi indispensabile chiarire la reale portata degli avvenimenti all’amm. Cunningham invitandolo a riprendere in benevole esame la nostra richiesta. Ma questi, fors’anche per la minore forza di penetrazione dell’organo di collegamento, dove il comandante Giuriati [Ernesto] aveva dovuto essere sostituito per venire utilizzato in un settore di maggiore importanza, fece rispondere confermando le obiezioni di principio già sollevate dagli Alleati.In poche parole de Courten, con incredibile faccia tosta, ha accusato il CV Ferrante Caponi di non essere stato all’altezza della situazione, mentre in realtà la risposta dell’amm. Cunningham era stata di una natura così decisa da non poter permettere di arrivare a una qualsiasi discussione.Questa brusca motivazione dell’inutilizzazione delle navi italiane ad operare contro i giapponesi, mortificando le illusioni italiane e generando molte delusioni, gelava ogni altro tentativo di convincere gli Alleati ad accordare agli italiani il permesso di operare nell’Oceano Indiano. Essa fu fatta conoscere all’amm. de Courten dal comandante Caponi con la lettera n. 1274 del 29 luglio 1945, spedita da Caserta a Marina Roma. Soltanto il 7 agosto questa risposta negativa del Comandante in Capo della Mediterranean Fleet fu portata ufficialmente a conoscenza del Ministero della Marina (Maristat), trasmessa con l’intera pratica dal Capo di Gabinetto dell’amm. de Courten, CV Francesco Baslini. E ciò avvenne il giorno seguente allo sgancio della prima bomba atomica statunitense su Hiroshima. La guerra delle Nazioni Unite contro il Giappone, iniziata il 7 dicembre 1941, stava già terminando. La seconda bomba atomica del 9 agosto su Nagasaki, che poteva essere risparmiata e con essa 80.000 vite umane, servi soltanto come monito per affrettare la resa dell’Impero Nipponico, che avvenne il giorno 15 del mese. La resa del Giappone fu firmata sulla corazzata statunitense Missouri il 2 settembre 1945. Alla cerimonia, a cui parteciparono i rappresentanti di tutte le nazioni cher avevano combattuto contro il l’Impero nipponico firmando il documento di resa, l’Italia, dopo aver dichiarato guerra al Giappone, già per se stessa moralmente scorretta, non è stato presente, neppure a titolo di cortesia. Neppure un osservatore italiano, poiché fino al trattato di pace di Parigi del 1947 l’Italia era considerata dagli Alleati un paese nemico. E questo, quando si parla di liberazione dell’Italia (invece di conquista) da parte degli anglo-americani, si dovrebbe ricordare. Dalle dure clausole dell’armistizio firmate da Alcide De Gasperi, all’Italia non fu accordata la benevolenza che era stata promessa al momento in cui fu firmato l’armistizio di Cassibile. E la colpo di questa situazione ricadeva sulla sua mediocrità militare nel combattere i tedeschi al momento dell’invasione dell’Italia nel settembre 1943, quando gli Alleati avevano contato sull’aiuto italiano per arrivare in pochi giorni almeno fino alla linea degli Appennini settentrionali. Invece per arrivarvi gli servirono ben undici mesi di duri combattimenti, per poi restarvi bloccati per altri otto mesi prima della Vittoria finale. _____________________ Ringrazio, con gratitudine, il Prof. Virgilio Ilari per la collaborazione fornita nella compilazione di questo Saggio. Francesco Mattesini[1] Sulla vicenda v. Domanico Fracchiola, Un ambasciatore della nuova Italia a Washington. Alberto Tarchiani e le relazioni tra Italia e Stati Uniti 1945-1947, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 67 ss.[2] Charles T. O’Reilly, Forgotten Battles: Italy’s War of Liberation, 1943-45, Lexington Books, 2001, p. 308.[3] Sulla vicenda, v. Mario Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Guanda, Parma, 1975, p. 230. Flavio Giovanni Conti,I prigionieri di guerra italiani, 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 1986.[4] Per comprendere in modo esaustivo la formula d, I prigionieri di guerra italiani, 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 1986. Per la “Cobelligeranza”, e i suoi effetti negativi per l’Italia, vedi Francesco Mattesini, La Marina del “Regno del Sud”. Parte prima, L’accordo navale tra Cunningham e de Courten, e la firma dell’armistizio lungo; Parte seconda, La dichiarazione di guerra alla Germania e l’emendamento all’accordo navale Cunningham-de Courten; Parte terza, La cobelligeranza e il bilancio dell’attività operativa e logistica. Il grossissimo saggio, vero libro, è stato stampato sul Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, di Giugno, Settembre e Dicembre 1994. [5]Ibidem.[6] A.N. Garland. H. McGaw Smith, M. Blumenstil, The Mediterranean Theater of Operation – Sicily [7] D.W. Elwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 48.[8]Le memorie dell’Amm. De Courten (1943-1946); Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1993, p. 494-495.[9] Archivio SM Esercito Ufficio Storico (da ora in poi ASMEUS), fondo I-3, cartella 76.[10] ASMEUS, “Azione svolta dal Comando Supremo e dallo SM Generale per il potenziamento dello sforzo bellico italiano in cooperazione con gli Alleati”, SM Generale. III Ufficio, Prot. N. 333/S del 28 febbraio 1946, firmato dal generale Claudio Trezzani, fondo I.3 cartella 85.[11] Ibidem.[12] Ibidem.[13] Gli Alleati calcolavano che partecipassero alla lotta armata contro i tedeschi 10.000 partigiani e 90.000 fiancheggiatori Una forza esigua, su 20.000 milioni di abitanti, che non può giustificare la tanto sbandierata guerra di popolo di cui si parla, a sproposito, ancora oggi soprattutto da parte di politi e intellettuali. Molto maggiore, nonostante tutte le difficoltà poste dagli anglo-americani, è stato il ruolo svolto dai militari nella “nostra” guerra di liberazione. Per gli alleati era soltanto guerra di conquista nella battaglia per sconfiggere i nazi-fascisti. [14]Ibidem.[15] Archivio Ufficio Storico Marina Militasre (da ora in poi AUSMM), Archivio de Courten, Memoriale, b. 3.[16]Ibidem.[17]Ibidem.[18] AUSMM, Archivio de Courten, Memoriale, Capitolo VII, fascicolo 31. * Il documento è stato da noi riportato in fotocopia dell’originale nel saggio L’armistizio dell’8 settembre, p. 57, e nell’opera La Marina e l’8 Settembre, II Tomo – Documenti, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 2002, p.258-259.[19] Elena Aga Rossi, L’inganno reciproco,L’armistizio tra l’Italia agli anglo americani del settembre 194, Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, Roma, 1943, p. 414-415; vedi anche Elena Aga Rossi 8 settembre. Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano.[20] Francesco Mattesini, La Marina e l’8 Settembre, I Tomo, Le ultime operazioni offensive della R. Marina e il dramma della Forza Navale da Battaglia, Roma, 2002, Nota 25, p. 350. * A differenza di quanto pensava de Courten, la Marina statunitense disponeva già di otto corazzate moderne (North Carolina, Washington, South Dakota, Indiana, Massachusetts, Alabama, Iowa, New Jersey) e nel 1944 ne avrebbe avute disponibili altre due (Missouri, Wisconsin), mentre la Marina britannica ne aveva altre quattro (King George V, Duke of York, Howe, Anson), e si valeva nell’Oceano Indiano anche della corazzata francese Richelieu, il cui insufficiente armamento contraereo era stato sostituito, in un arsenale degli Stati Uniti, e incrementato da mitragliere quadruple Bofors e singole Oerlikon. [21] AUSMM, Titolo C, Collezione A. B. C.[22] Le due corazzate Italia (ex Littorio) e Vittorio Veneto, le più grandi e moderne della Flotta italiana, si trovavano in buone condizioni di conservazione, ma avevano dovuto ridurre gli equipaggi alla consistenza strettamente necessaria per assicurare la manutenzione degli impianti e delle sistemazioni di bordo, e pertanto per rimetterle in condizioni di piena efficienza occorreva ricostituirne il personale e riprendere l’addestramento di equipaggi e stati maggiori. Tra i lavori da realizzare su ogni unità vi era la sistemazione per ciascuna corazzata di 80 mitragliere pesanti da 40/60 mm (Bofors) in complessi quadrupli e con una dotazione di 1.500 proiettili per canna, e l’integrazione di nuove apparecchiature per la direzione del tiro, compresi i pezzi contraerei da 90 mm; nonché l’installazione di apparati radar per tutte le navi (compresi torpediniere di scorta e sommergibili), su quelle maggiori in più esemplari, per scoperta aerea e direzione del tiro per cannoni e mitragliere. Vi era poi la sistemazione di ecogoniometri da installare sugli otto incrociatori, mentre i nove cacciatorpediniere avrebbero dovuto sbarcare uno dei due complessi trinati di siluri da sostituire con due mitragliere singole da 37 mm. Il tutto con un costo di lavori e di acquisto materiali non indifferente presso l’Industria Nazionale, e presso gli Alleati che dovevano fornire gran parte dell’armamento e del munizionamento: con larga approssimazione 1.160 milioni di Lire, di cui 258 milioni di Lire per lavori e armamento delle sole corazzate. Cfr., AUSMM, Reparto Operazioni O/A, “Richieste di preventivo per l’impiego oceanico delle unità navali” 22 luglio – 2° agosto 1945, Titolo C, Collezione A. B. C.[23] Ibidem. Promemoria n. 15 del Reparto Operazioni dell’Ufficio di SM della R. Marina del 17 marzo 1945. * Anche la Regia Aeronautica fece un timido tentativo per poter partecipare alla guerra contro il Giappone con alcune delle sue più efficienti unità aeree. In una lettera che il Capo di SM, generale Mario Ajmone Cat trasmise il 28 aprile 1945 al vice maresciallo dell’aria I.E. Brodie dell’AFSC/AC (Direttore della Air Forces Sub-Commission), e che fu anche portata all’attenzione del maresciallo Messe, si chiedeva di partecipare fino alla pace con il Giappone alle attività aeree Alleate in quella forma e misura che, accettata, potesse essere concessa. La collaborazione poteva iniziare subito trasferendo nell’Estremo Oriente le unità aeree utilizzabili per la guerra. Pur non nascondendo le difficoltà e complicazioni che si presentavano per l’inserimento a grande distanza di un piccolo gruppo eterogeneo di aerei in una grande massa omogenea come quella degli Alleati, il generale Ajmone Cat sostenne che “l’Aviazione Italiana sarebbe stata lietissima di una tale soluzione, sempre che questa convenisse agli Alleati dal punto di vista militare, organico ed amministrativo”. Cfr., ASMEUS, foglio n. 01070/Sg.U. del 28 aprile 1945, fondo I-3 cartella 76.[24] ASMEUS, fondo I-3 cartella 76. [25]Ibidem.[26]Ibidem, lettera con prot. 0038.[27] Uno dei 9CT, il Carabiniere, era dislocato nell’Oceano Indiano per trasporti e scorte. Era disponibile anche un decimo CT (Da Recco), ultima unità rimasta delle 12 della classe “Navigatori”, che essendo ormai di modeste qualità belliche era al momento impiegato per trasporti nel Mediterraneo. Dislocati a Colombo (Ceylon), con il Carabiniere si trovavano anche la nave coloniale Eritrea e il sommergibile Brin. Occorre anche dire che tra le principali lacune tecniche della R. Marina vi era quella di dotare le navi con moderni ed efficienti radiolocalizzazione, ossia i radar, di cui alcuni erano già stati montati sugli incrociatori nel 1944, quando furono assegnati al compito di operare in Atlantico, nella zona di Freetown, per intercettare le navi tedesche che dal Giappone, superando il blocco navale degli Alleati, raggiungevano la Francia con rifornimenti di materie prime, come la gomma.[28] AUSMM, Archivio de Courten, Memoriale, cartella 3.[29] In realtà unità francesi, pur non disponendo di navi porterei, operavano già da tempo nell’Oceano Indiano, inserite nella Flotta Orientale (Eastern Fleet) britannica. [30] Furono prescelti i sommergibili Cagni, Zoea, Brin, Dandolo, Vortice, Marea, Speri, Mameli, Da Procida, Platino, Nichelio e Giada. Erano escluse le unità più anziane e mediocri come la corazzata Cesare e l’incrociatore Cadorna.[31] ASMEUS, fondo I-3 cartella 76.[32]Le memorie dell’Amm. De Courten (1943-1946), cit., p. 560-563.[33] AUSMM, “Promemoria per approntamento Oceanico” del 18 luglio 1945, Titolo C, Collezione A – B- C.[34] ASMEUS, fondo I-3 cartella 76.[35] AUSMM, «Impiego R. Navi contro il Giappone», Titolo C, Collezione A – B- C. * Ha scritto Elwood, riportandosi ai frammenti di lettere del Foreign Office (in National Archive di Londra FOGC, R/4484/51/22): “Gli italiani stavano “cercando di trovare un espediente per togliersi dalla posizione di nemico sconfitto”. Abrebbero dovuto essere “richiamati duramente e con fermezza altrimenti, al momento opportuno non saremo in grado di far valere le clausole territoriali del trattato di pace che alla finer concluderemo con l’Italia”. Anche l’idea di una partecipazione italiana alla guerra col Giappone, probabilmente suggerita da Badoglio, ottenne lo stesso rifiuto, giacché ciò avrebbe “aumentato i nostri obblighi nei confronti dell’Italia e l’avrebbe posta in una posizione contrattuale migliore al tavolo della pace”. Cfr. D.W. Elwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1972; Cfr F. Mattesini, «L’Armistizio dell’8 Settembre 1943», Parte 3a, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Dicembre 1994, p. 61. Napy, Alfabravo 59, CARABINIERE and 2 others 5 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Giancarlo Castiglioni Posted November 10, 2018 Report Share Posted November 10, 2018 Non voglio infierire commentando questa decisione, presa all'unanimità da tutti i partiti allora facenti parte del Governo.Ho scoperto che la dichiarazione di guerra era tecnicamente nulla, perché secondo le clausole dell'armistizio "lungo" l'Italia non aveva il potere di prendere iniziative in politica estera senza l'autorizzazione degli alleati e quindi non poteva dichiarare guerra.Quindi la dichiarazione di guerra è da considerarsi non avvenuta, infatti non esiste un trattato di pace tra Italia e Giappone. Alfabravo 59 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted November 10, 2018 Author Report Share Posted November 10, 2018 La dichiarazione di guerra c'é stata e non si può smentire che fosse stata fatta per permetterci di entrare in guerra con il Giappone. Ma gli Alleati ci consideravano, e lo eravamo senza aver firmato il trattato di pace, dei Nemici. Ogni tentativo per permetterci di avere al tavolo della pace dei meriti di Alleanza andarono a farsi friggere. Questa é la verita. Non quella che ci raccontano i politici, di qualsiasi livello, gli intellerttuali, e con le favole che i professori raccontano agli allievi, sostenendo che lo scopo degli anglo americani era quello di liberarci. In realtà bisogna mettersi in testa, e io l'ho scritto da tanto tempo, anche per l'Ufficio Storico della Marina senza ricevere alcuna contestazione, perché parlano i documenti originali che ho mostrato, che la campagna d'Italia, dopo il crollo delle nostre Forze Armate all'Armistizio (e la colpa é di tutti e non solo del RE) si occuparono soltanto a combattere i tedeschi. Altro che frottola della "Liberazione"! Loro volervano conquistare il territorio per farne una base da partenza da Sud contro la Germania! E in ciò, non potendo impegnrsi a concederci il perdono, fecero in modo che l'apporto delle nostre Forze Armate (nemiche ma benevolmente accettate con la formula ambigua e da tutti non compresa della cobelligeranza) fosse il minimo possibile, e avvenisse sotto il loro stretto controllo. Avevano tutta la struttura della Nazione nelle loro mani, perfino i sindaci D'altronde gli anglo-americani si erano impegnati con le Alleate nazioni che avevano combattuto, e ancora combattevano a nord della penisola gli italiani fascisti (erano 20.000 milioni molti dei quali fedeli al regime), e volevano il loro compenso. In particolare i russi che avanzarono un'eplicita richiera nel marzo 1944, per calmare i quali la Royal Navi concesse alcune delle sue navi, come la corazzata RAMILLIES, in pegno di ricevere le promesse navi italiane, tra cui la corazzata GIULIO CESARE. Ciò avvenne dopo la firma del trattato di Parigi del 1947, e le navi britanniche tornarono in Patria. Rimanemmo fottuti e mazziati! Francesco Mattesini Alfabravo 59 and CARABINIERE 2 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
CARABINIERE Posted November 10, 2018 Report Share Posted November 10, 2018 Francesco Mattesini come sempre ci regala. un quadro preciso ed obbiettivo senza concessioni e ambiguità, e meno di demagogia, di quelle che furono le tragiche conclusioni e gli strascichi di una guerra sbagliata e peggio condotta.Una guerra di mezzi inadatti, e voglio sottolineare ancora una volta - nel momento in cui da più e interessate parti si torna rispolverare il mito della "Grande Marina" - l’impietoso giudizio tecnico degli alleati, opportunamente riportato integralmente da Mattesini: ....la costruzione leggera delle navi italiane, ….la loro limitata autonomia e la loro dipendenza da sorgenti esterne per il rifornimento dell’acqua le rendono inadatte per operazioni nell’Oceano Indiano e non so di altra zona in cui potrebbero essere utilmente impiegate … ecc ecc… questa valutazione tecnico-qualitativa ancor prima di quella politica è all’ origine del rifiuto alleato, e non solo per l’ impiego in Estremo Oriente ma anche per l’ impiego nello scacchiere mediterraneo.Pochi, anche tra coloro che scrivono molto in materia navale, ricordano e meno valutano che le nostre navi maggiori avevano un’autonomia tanto limitata che avrebbero avuto difficoltà a condurre operazioni nei due estremi del Mediterraneo.L’ autonomia non era solo quella del combustibile, come giustamente sottolinea la nota britannica all’ acqua (acqua da caldaie, non acqua di lavanda ..)ma era anche abitabilità e sussistenza.Le nostre navi non solo non prevedevano alcuna forma di rifornimento in mare, pratica negletta nella RM, ma neppure avevano sistemazioni di rifornimento rapido del combustibile che veniva pompato da natanti portuali o scambiato tra unità con la pompa travaso.Lo stesso valeva per carichi solidi, compresi viveri, dotazioni e munizionamento.Si trattava di caratteristiche e problemi di fondo che non si sarebbero potuti risolvere neppure con il sollecitato “aiuto/contributo alleato”. Alfabravo 59 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted November 10, 2018 Author Report Share Posted November 10, 2018 Sono perfettamente daccordo con CARABINIERE. Non vi era il sistema di riformnimento in mare, che non s'improvvisa dall'oggi al domani. Le navi erano state costruite per affrontare nel Mediterraneo La Marina Francese, e quando si trovarono a combattere con quelle britanniche ogni difetto venne al pettine. Tuttavia la stessa bassa autonomia valeva anche per i sommergibili quando andarono ad operare in Atlantico, ma la questione fu risolta adottando i doppifondi a depositi di nafta. Con ciò l'autonomia dei battelli in missione di guerra arrivò a ben 10.000 km. Le navi di superficie avrebbero potuto fare lo stesso, adottando a depositi di nafta e acqua i locali inferiori delle unità. Ma poi restava sempre il problema del rifornimento in mare, che era stato adottato in Atlantico soltando dai sommergibili. Inoltre, senza adottare un'efficiente difesa contraerea, anche se avessero ricevuto il permesso degli Alleati a partire per l'Estremo Oriente, era inutile partire. Lo Stato Maggiore della Marina lo sapeva e per questo volerva incrementare l'armamento contraereo con armi quadrinate Bofors (le 20 e 37 mm Breda delle corazzate in tutta la guerra avevano abbattuno un solo aereo, l'Albacore che a Gaudo aveva colpito la VITTORIO VENETO) e dotare le singole navi di radar di scoperta aerea, navale e direzione del tiro. Alfabravo 59 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Giancarlo Castiglioni Posted November 10, 2018 Report Share Posted November 10, 2018 Ripeto che preferisco non parlare degli aspetti politici e morali della dichiarazione di guerra.Per quanto riguarda gli alti gradi della Marina, l'unico dubbio è se non avevano capito nulla o se facevano finta di non capire.Non avevano capito che la situazione politica rendeva impossibile l'uso delle nostre navi.Non avevano capito che agli alleati le nostre navi non servivano, contro il Giappone avevano già fin troppe corazzate.Non avevano capito che le nostre navi non potevano essere utilizzate contro il Giappone per le loro caratteristiche tecniche, la contraerea era solo uno dei difetti, forse neanche il più grave.Con queste premesse chiedere agli alleati di rammodernare le nostre navi era solo ridicolo. Alfabravo 59 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco De Domenico Posted November 10, 2018 Report Share Posted November 10, 2018 Come è noto, la stessa partecipazione britannica alle ultime fasi della guerra nel Pacifico (Okinawa, i raid sul Giappone metropolitano) avvenne dietro ripetute insistenze di Churchill con Roosevelt. L'ammiraglio King era contrario, e la cosa fu accettata solo a condizione che la Royal Navy provvedesse in proprio ai rifornimenti e alla logistica. A Okinawa la squadra britannica fu relegata a compiti di seconda linea (la neutralizzazione delle Sakishima Gunto). Un problema era dato dal fatto che gli inglesi non avevano molta pratica di rifornimenti in alto mare (lo facevano ancora con tubi calati dalla poppa della cisterna alla prua della nave da rifornire navigando in linea di fila, anziché con il più moderno sistema delle navi affiancate), e quindi impiegavano il doppio o il triplo del tempo rispetto alla US Navy.Quindi il Task Group delle portaerei di squadra britanniche per rifornirsi aveva bisogno ogni volta di allontanarsi dal teatro delle operazioni per almeno una settimana, e gli americani lo rimpiazzavano con un semplice Task Group di portaerei di scorta, che rispondevano altrettanto bene alla bisogna, a dimostrazione della loro non eccelsa considerazione delle capacità offensive dell'alleato. Niente francesi nel Pacifico (La RICHELIEU opero' solo nell'Oceano Indiano), solo australiani e poche navi olandesi nell'area dell'ex colonia indonesiana. Ma figuriamoci le navi italiane, tutte con scarsa autonomia come ha osservato giustamente Carabiniere, in quell'immenso teatro di guerra... Per concludere, ricordo la famosa frase di De Gasperi alla Conferenza di pace di Parigi nel febbraio 1947: "Signori, sono consapevole del fatto che tutto qui milita contro di me, salvo la vostra personale cortesia". Alfabravo 59 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted November 11, 2018 Author Report Share Posted November 11, 2018 Non credo che alla fine De Gasperi avesse apprezzato molto la cortesia di una massa di Lupi, tutti votati a punire l'Italia: perdita delle Colonie, del Dodecaneso, della Dalmazia, dell'Istria, di Briga e Tenda, rettifica dei confini con la Francia con arretramento di 2 km sulle Alpi opccidentali; consegna di navi alla Francia, Russia, Grecia, Iugoslavia e perfino alla Cina; disarmo delle Forze Armate entro limiti stabiliti dagli Alleati, pagamento di danni di guerra anche all'Etiopia, oltre al danno morale alla Nazione, ecc.. Se questi erano i liberatori solo pensandolo si fa ridere i polli! Francesco Mattesini Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco De Domenico Posted November 12, 2018 Report Share Posted November 12, 2018 Franco, hai sentito parlare del Piano Marshall, di 100 Liberty e 20 T 2 cedute a prezzi stracciati all'Italia, e via dicendo? Giuseppe Garufi 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Giancarlo Castiglioni Posted November 12, 2018 Report Share Posted November 12, 2018 Ovvio che al momento molte clausole siano state considerate dolorose e umilianti, ma dopo 70 anni sarebbe meglio guardare in prospettiva quando abbiamo dovuto cedere al tavolo dalla pace.Per il confine orientale, tranne qualche città costiera con prevalenza di popolazione italiana, abbiamo restituito territori che non erano nostri; Il confine attuale è certamente più aderente alla composizione etnica di quello del 1918.La popolazione italiana cacciata dall'Istria e le foibe sono un'altra questione, la responsabilità è degli Jugoslavi, non delle trattative di pace.Anche il Dodecaneso era un territorio non nostro.Le colonie erano intenibili, essere obbligati a cederle subito ci ha risparmiato guerre coloniali sicuramente perdute nel dopoguerra, come Francia in Algeria e Vietnam, Inghilterra a Cipro, in Kenya e altre parti del mondo.Le navi avevano un valore affettivo, ma valore bellico ormai scarsissimo; se non fosse stata inviata in Russia la Cesare sarebbe stata inviata a un demolitore.Quanto agli aiuti americani dubito molto siano stati fatti per generosità.Avevano un preciso scopo politico, era nel loro interesse rimettere in piedi la nostra economia.Le Liberty e le T2 non servivano, sarebbero state messe in naftalina, essersene liberati anche a poco prezzo è stato un affare per loro. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted November 12, 2018 Author Report Share Posted November 12, 2018 Si, oggi col senno di poi si possono fare i vari paragoni, e quanto ha scritto Castriglioni é vero. Ma all'epoca, ve lo posso assicurare per averlo vissuto, cera tante delusione per il trattamento ricevuto e tanta tamtissima rabbia. Per quanto riguarda il Dodecaneso al limite doveva essere restituito alla NEUTRALE Turchia, cui lo avevamo preso. Circa Briga e Tenda, nonché le parti confinanti come la lunga Valle stretta di Bardonecchia fino al monte Tabor, il forte dello Chaberton ecc. Be, questi erano nostri e i francesi li hanno presi come riparazioni di guerra. Sulle Liberty e T2 ne aveva tante che non sapevano che farne. Venderle é stato un affare. Alfabravo 59 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco De Domenico Posted November 12, 2018 Report Share Posted November 12, 2018 No Franco, quello delle Liberty, T2, Baby Liberty all'Italia non è stato per nulla un affare, in caso contrario i nostri armatori non se le sarebbero potute proprio permettere.... Tanto è vero che a Germania, Giappone, Spagna, Irlanda e altri non sono state date, e quelle cedute alla Gran Bretagna a termini di Lend-Lease gli inglesi hanno continuato a pagarle per un decennio. La prima volta che sono stato a Londra, nel 1954, c'era ancora il razionamento alimentare (ormai dimenticato in Italia) perché il paese doveva finir di pagare agli USA l'enorme debito di guerra e il Congresso voleva che pagassero fino all'ultimo cent.Quanto al Dodecaneso, la popolazione era greca ed era più giusto darle ai greci da noi aggrediti "per spezzargli le reni", come disse l'imbecille nazionale, anziché alla Turchia entrata in guerra solo a febbraio del 1945 quando ormai non rischiava più nulla...Poi alla Grecia fu dato un incrociatore, l'EUGENIO, riparato male dai danni della mina del 1944 e sempre guasto, che riprese il nome di ELLI a ricordo di una vergogna nazionale, il vecchio incrociatore greco affondato col siluro dal smg DELFINO in tempo di pace il 15 agosto 1940 con 7 morti tra l'equipaggio all'ancora nell'isola di Tino, dove si celebrava la festa dell'Assunta presso il santuario locale affollato da migliaia di pellegrini. Italiani brava gente...Scusa la durezza, ma "quanno ce vo' ce vo'" Giuseppe Garufi and Alfabravo 59 2 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted November 12, 2018 Author Report Share Posted November 12, 2018 Non vedo nessuna durezza, é solo che ai fatto una buona esposizione dei fatti. Non ricordavo che la Turchia fgosse entrfata in guerra all'ultimo momento. Dico che per le navi hanno fatto un affarew perché almeno qualcuno le ha comprate. Per l'Helli: Helli (ex Fei Hung), 2116 tons (15 agosto 1940) Ex incrociatore cinese Fei Hung ceduto dagli Stati Uniti d’America al Governo della Grecia. Il mattino del 15 agosto 1940 l’Helli si trovava all’ancora nella Baia di Tinos, nell’Arcipelago greco delle Cicladi (Egeo), con il gran pavese innalzato per onorare la festa della Vergine miracolosa, che ricadeva quel giorno e cui un’immagine, meta di pellegrinaggi, era venerata in un santuario di quell’isola. La presenza dell’Helli a Tinos era stata ritenuta pericolosa dal Ministero della Marina ellenica che, contro il parere contrario dello Stato Maggiore, aveva inutilmente insistito di inviare, in rappresentanza per le celebrazioni religiose, al posto dell’incrociatore il cacciatorpediniere Aetos. Alle ore 08.30 l’Elli fu raggiunto da uno dei tre siluri lanciati in immersione dal sommergibile italiano Delfino (tenente di vascello Giuseppe Aicardi), inviato in quelle acque per ricercarvi naviglio inglese per ordine del Governatore del possedimento italiano del Dodecaneso, generale Cesare Maria de Vecchi di Valcismon, nonostante non vi fosse allora uno stato di guerra dell’Italia con la Grecia. La iniziativa di de Vecchi, che intendeva aumentare la tensione con la Grecia, era stata incoraggiata da una lettera ricevuta dall’ammiraglio Domenico Cavagnari, sottosegretario di Stato e Capo di Stato Maggiore della Marina italiana, che lo aveva inviatato ad attaccare le navi britanniche entrate in Egeo; un sospetto, non del tutto infondato, che esisteva allora a Roma. Il siluro del Delfino colpì l’Helli sul fianco destro, sotto la caldaia, provocandone l’esplosione e la fuoriuscita della nafta in fiamme. Le navi che si trovavano nelle vicinanze accorsero in aiuto. Ma ogni tentativo di salvare l’incrociatore immobilizzato e privo di alimentazione, prendendolo a rimorchio, per portarlo in zona di bassi fondali, risultò vano. L’Helli fu allora abbandonato dall’equipaggio alle 09.45 e affondò alle 10.15, fortunatamente con perdite esigue, dal momento che vi furono soltanto quattro morti e ventinove feriti. La Marina ellenica recuperò alcuni frammenti di siluri che erano esplosi contro la banchina del porto, ed il loro esame dimostrò senza ombra di dubbio che si trattava di armi di fabbricazione italiana, del calibro e del tipo in uso sulle unità subacquee della Regia Marina. Tuttavia, per quanto si fosse diffusa la convinzione, pressoché unanime, che autore dell’affondamento dell’Helli era un sommergibile italiano, il Governo di Atene si astenne allora dal formulare accuse nei confronti dell’Italia e lo fece soltanto in novembre dopo l’inizio delle ostilità tra i due paesi. Da parte greca, nel corso dell’attacco del Delfino siluri furono visti dirigere contro le navi passeggeri Else e Esperus. Una delle armi esplose contro un molo del porto, danneggiandolo. Giuseppe Garufi and Alfabravo 59 2 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Giancarlo Castiglioni Posted November 12, 2018 Report Share Posted November 12, 2018 Le rettifiche al confine con la Francia sono, l'aspetto più discutibile del trattato di pace.Sono talmente piccole che i francesi avrebbero fatto miglior figura a non chiedere nulla.D'altra parte De Gaulle era partito con l'idea di prendersi la Val d'Aosta, ci ha rinunciato perché fermato dagli USA.Anche io sapevo che in Inghilterra il razionamento era rimasto quando in Italia era stato tolto da un pezzo.Gli inglesi avevano comprato le liberty quando ne avevano assoluta necessità, noi quando erano un surplus; ovvio che il prezzo fosse diverso.Per l'Helli avevo letto che è stato silurato su un preciso ordine di De Vecchi; Mattesini mi conferma?La famosa frase "spezzeremo le reni alla Grecia" non è una rodomontata detta prima dell'attacco, come generalmente si crede.E' stata detta il 18 novembre 1940 nel momento più critico della guerra alla Grecia, quando le truppe italiane erano state respinte dietro al confine e reggevano a fatica.Nello sconforto generale, in un discorso ai gerarchi Mussolini dichiarò: «Affermai cinque anni fa: spezzeremo le reni al Negus.Ora, con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia in due o dodici mesi poco importa, la guerra è appena cominciata!»Per me è molto diverso. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
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