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Commenti sul libro di Gianni Rocca “Fucilate gli Ammiragli”, seconda edizione, F


Francesco Mattesini
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Commenti sul libro di Gianni Rocca “Fucilate gli Ammiragli”, seconda edizione, Feltrinelli, 2014

 

 

Il 20 novembre 2014 il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato nelle sue pagine culturali  una recensione di Stefano Malatesta, sulla ristampa di "Fucilate gli ammiragli" di Gianni Rocca, che conoscevo personalmente da quando era vice direttore di quel giornale. Pubblicò un articolo su Storia Illustrata in cui praticamente era una recensione sul mio libro “La battaglia di Punta Stilo”, pubblicato nel 1990 dall’Ufficio Storico della Marina Militare e ristampato in seconda edizione nel 2001.  Pubblicazione che il nuovo fenomeno degli Storici della Marina, Enrico Cernuschi (!), forte delle amicizie e dell’appoggio dall’Alto e nuovo conduttore della storiografia del suddetto Ufficio Storico, sta tentando di porre in cattiva luce (come altre mie opere), vantando successi italiani sui britannici che non ci sono stati. Esempio colpo della corazzata CESARE sulla britannica WARSPITE e non solo ?

Naturalmente, data la durezza del Signor Malatesta nei riguardi del timoroso comportamento in guerra della Regia Marina, e dalla mancanza dei successi che da “Una Grande Marina” ci si poteva attendere, il Signor Cernuschi ha inviato alla Redazione di Repubblica una sua lettera di contestazione, che il giornale non ha pubblicato, ma che è stata poi inserita dal Cernuschi stesso nel Forum di BETASOM, prendendosi gli applausi degli incompetenti.

Poiché anch’io avevo realizzato una specie di recensione, su richiesta dell’allora Capo dell’Ufficio Storico Marina, capitano di vascello Alessandro Valentini, persona intelligente e squisita, l’ultima ad assumere la carica di Direttore che conoscesse a fondo le problematiche delle operazioni belliche dell’Arma navale nella seconda guerra mondiale.

Mi permetto pertanto di far conoscere, di seguito, le tre opinioni, lasciando ai lettori il compito di giudicarle.

 

Francesco Mattesini

 

 

Recensione di Stefano Malatesta su La Repubblica

 

All’inizio della Seconda guerra mondiale la Regia Marina era la più elegante e la più ricercata arma italiana. Nel quadrato ufficiali di ogni nave si era serviti da camerieri che avevano l’obbligo di portare i guanti bianchi. Durante la Prima guerra mondiale gli episodi più clamorosi, come la Beffa di Buccari e l’affondamento della Viribus Unitis, erano state operazioni di grande audacia ma di modesta entità che non avevano influito sull’andamento della guerra. Per ritrovare la vera tradizione italiana bisogna risalire indietro negli anni: come gli inglesi hanno avuto Nelson e Trafalgar, gli italiani hanno avuto Lissa e l’ammiraglio Persano.

Eppure alla fine degli anni Trenta, erano in molti a credere, dopo il via dato da Mussolini alla costruzione di imponenti navi da battaglia, che l’Italia potesse rivaleggiare finalmente nel Mediterraneo con le navi della prima potenza navale del mondo, la Perfida Albione.

Questo convincimento si dissolse in poche settimane, quando si passò dai minacciosi discorsi lanciati dal balcone di Palazzo Venezia alla la guerra combattuta. Gli inglesi avevano a disposizione una flotta obsoleta ma più potente di quella italiana e numerose navi erano già dotate di un radar. La Marina era favorita anche da un servizio di informazione migliore di quello italiano che decrittava i messaggi tedeschi. Ma non era solo il superiore tonnellaggio della flotta inglese o le informazioni ottenute attraverso la decrittazione dei messaggi che facevano la differenza. La Marina inglese poteva essere sconfitta casualmente in uno scontro con i giapponesi che all’inizio della guerra avevano affondato le uniche due navi da battaglia britanniche nel Pacifico “The Repulse” e “Prince of Wales”.

Ma la differenza tra la Marina italiana e quella inglese era ancora troppo grande in quella che viene chiamata – the seamanship…, un vocabolo intraducibile che riassume tutte le capacità marinare. Gli italiani si muovevano con estrema prudenza in manovre del tipo “Avanti tutta, quasi indietro” e i comandanti sul posto avevano una autonomia limitata: ogni mossa doveva essere approvata da Supermarina, un supremo comando che stava a Roma e che era gestito da modesti uomini di mare che passavano il tempo a farsi le scarpe tra loro.

Questo quadro non molto allegro era aggravato dalla assoluta non cooperazione dell’Aereonautica che doveva essere l’arma del regime e che invece fu abbandonata a se stessa dopo i trionfi delle trasvolate atlantiche. I marinai della Royal Navy avevano diritto a un boccale di rum cotto al giorno e il loro training era duro e continuo: le navi erano sempre in navigazione anche con il mare più tempestoso. Mentre, come diceva Kesserling, «la Marina Italiana era la Marina della bella giornata» e le navi rimanevano per settimane immobili dopo aver dato alla fonda nei porti con i marinai impegnati ad ottenere il maggior numero delle licenze possibili. E l’eccesso di autarchia aveva portato a ignorare le innovazioni tecniche e i modi di combattimento che si facevano all’estero.

Le corazzate italiane erano al vertice della tecnologia di allora e mostravano cannoni immensi ma i cannonieri italiani non avevano fatto sufficiente pratica per la paura del comando di sprecare le munizioni. Durante l’attacco a Taranto la contraerea italiana sparò dodicimila colpi: riuscirono ad abbattere solo uno o due aerosiluranti. Ci furono casi in cui le navi italiane, che avevano sorpreso la flotta nemica più per caso che per abilità, la lasciarono sfuggire con una manovra di accostamento sbagliato.

Ora è stato ripubblicato un bellissimo libro di Gianni Rocca, condirettore di Repubblica per molti anni, Fucilate gli ammiragli. È un testo allo stesso tempo eccitante e deprimente. Se non ci fossero stati due o tre episodi come l’impresa di Durand de la Penne e Bianchi che fanno saltare la Valiant e la Queen Elisabeth nel porto di Alessandria, come l’attacco a Suda con i barchini esplosivi o le incursioni del capitano di corvetta Carlo Fecia di Cossato, leggendario comandante del sommergibile Tazzoli, l’onore della Marina italiana sarebbe stato irrecuperabile. Una delle clausole dell’armistizio prevedeva la consegna di tutta la flotta italiana al nemico. La maggioranza degli ufficiali, guidati da Bergamini, il più stimato tra gli alti ufficiali della Marina, era per l’auto affondamento. Ma l’ammiraglio saltò in aria con il “Roma”, centrato da una bomba siluro lanciata da uno stuka. E la flotta italiana seguendo le istruzioni del governo si consegnò a Malta.

 

 

Contestazione di Enrico Cernuschi presso La Repubblica

 

Egregio Direttore,

a scuola tutti noi lettori abbiamo studiato il Pascoli, col suo “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico”. E’ proprio quello che ho provato leggendo una recensione apparsa oggi, 20 novembre, sul quotidiano da lei diretto in merito a un libro dedicato alla storia della Marina italiana. Intendiamoci, una recensione a beneficio della memoria di un ex condirettore della stessa testata non si nega mai, specie se si tratta della ristampa di un vecchio libro del 1987. Ma il guaio è proprio questo: siamo davanti a un testo basato su vecchie polemiche di sessant’anni fa, se non addirittura sulla feroce propaganda dei venti mesi di Salò.

La recensione riporta, infatti, una divertente serie di errori. Non esiste, per esempio, una “bombasiluro”, né l’aereo che affondò la nave da battaglia Roma era uno “stuka”, tutto il contrario, si trattava di un bombardiere orizzontale Do 217. Magari fosse stato un convenzionale Ju 87 o Ju 88! Non avremmo perso 1.352 uomini. Tralascio errori classici come la confusione tra dislocamento e tonnellaggio, l’arte marinaresca (seamanship) presente sui fogli matricolari italiani sin dai primi del Settecento e, pertanto, traducibilissima, e vengo al sodo.

Il riferimento al maresciallo tedesco Kesselring in merito alla “Marina della bella giornata” contraddice le 39.068 missioni e le 9.854.034 miglia percorse dalle sole navi da guerra maggiori italiane, dalle corazzate ai sommergibili, nei 1.185 giorni del conflitto 1940-1943, non certo tutti caratterizzati da sole splendente e calma piatta. In realtà le navi tennero il mare ogni giorno e ogni notte, allora come oggi e sempre, con ogni tempo. Un giornalista come Giorgio Bocca, autore di una grande intervista a quel condottiero del III Reich condannato a Venezia nel 1947, ci sarebbe andato più piano prima di abbeverarsi a certe fonti. Le esercitazioni di tiro dei grossi e medi calibri non soffrirono, inoltre, mai di deficienze di munizionamento; quanto ai 13.489 colpi tirati (4.901 dei quali delle mitragliere) la notte di Taranto abbattendo due aerei inglesi corrispondono, infine, alle più di 4.000 cannonate (ossia dai 76 mm in su) per velivolo abbattuto rivendicate dai britannici a Malta nel 1940-1942 e ai 3.500 proietti rivendicati dai moderni pezzi da 88 degli artiglieri tedeschi per ogni bombardiere distrutto di notte in quello stesso periodo. Polemiche inutili, pertanto, al pari, beninteso, della formulazione di giudizi come “modesti uomini di mare” e “più per caso che per abilità”, le quali lasciano il tempo che trovano.

Un confronto tra Nelson e Trafalgar con Persano e Lissa è, a sua volta, fuorviante; si tratta, infatti, di un sofisma passato di moda dai tempi di Platone. Perché non citare la sconfitta inglese di Coronel del 1914, giusto cent’anni fa, o la presa di Ancona del 1860 o, ancora, il fatto che, dopo Lissa il blocco navale italiano di Venezia proseguì come prima, continuando così a tagliare fuori un intero corpo d’armata austriaco proprio mentre Vienna abbandonava il Veneto e si attestava sull’Isonzo perché, sul mare, i termini della questione non erano cambiati?

“Flotta obsoleta” inglese a Punta Stilo. E’ vero esattamente l’opposto: le due corazzate italiane, Cesare e Cavour, da 29.000 t, che affrontarono le tre inglesi (più una portaerei) il 9 luglio 1940, erano entrate in servizio nel 1914-1915 ed erano state ammodernate nel 1933-1937. Gli anni di quelle britanniche da 36.000 sono, per contro, rispettivamente 1915-1916 e 1934-1937. Dopo quella battaglia la Marina inglese non tentò più di insidiare il traffico italiano con l’Africa se non con mezzi spendibili. I risultati di questa guerriglia di lusso furono negativi: nel corso di 3 anni (fino, cioè, all’ultimo giorno di guerra in quel continente) passarono il 91,99% del personale e l’83,49% dei materiali inviati laggiù. La percentuale sale al 99% (ossia è uguale a quella inglese in Atlantico) se si prendono in considerazione tutti i traffici via mare italiani effettuati nel Mediterraneo nel ’40-‘43. Anche la storia delle decrittazioni è esattamente invertita rispetto a quanto riportato oggi: eravamo noi che leggevano loro, e non viceversa. E’ bastato confrontare, infatti, con metodo scientifico, i documenti britannici e italiani, giorno per giorno e ora per ora, procedendo sine ira et studio e, soprattutto, senza debolezze polemiche. Altro fatto non vero: l’Aeronautica italiana “abbandonata a se stessa” dopo il 1933. Capisco la debolezza dimostrata dall’autore, in un altro proprio libro del 1991, per l’arma azzurra, ma in realtà i bilanci della pupilla del fascismo, una volta depurati dall’inflazione, furono sestuplicati, tra il 1935 e il 1939, a danno di quelli, viceversa dimezzati, della Marina. Gli aerei in linea, nel 1933, erano 1.316; nel 1939 1.525. Per quanto il peso medio per velivolo fosse salito, nel frattempo, del 20%, nessuno ha mai capito dove fossero finiti i quattrini, né allora né oggi.

Concludo, Direttore, con due ultime osservazioni.

Quanto sopra ricordato non è un segreto di Stato. Proprio un giornale del Gruppo, La Provincia pavese, poi ripresa da altri quotidiani fratelli, ha pubblicato queste stesse, semplici e solide verità,  il 3 aprile di quest’anno. Dagli anni ‘90 in poi la storiografia navale italiana e straniera è cambiata profondamente grazie a ricerche condotte serenamente sui documenti originali inglesi e italiani e non sui pamphlet della propaganda di guerra. Si vedano, per esempio, numerosi testi pubblicati in lingua inglese come On Seas Contested, Dark Navy, To Crown the Waves, Struggle for the Middle Sea, Black Phoenix e In Passage Perilous. Ristampare va bene, ma il lettore che paga avrebbe diritto a qualcosa di aggiornato o a sapere, quantomeno, che sta acquistando una Millecento con il cambio al volante.

Quanto alla questione più delicata, ovviamente tenuta per ultima, è presto detta. La parola “onore” non va utilizzata con leggerezza. La Marina italiana, in quanto forza intellettualmente attiva, è sempre aperta al confronto (ma non agli strafalcioni) e all’innovazione, come prova, tra l’altro, il felice sviluppo della componente femminile dalla Forza Armata, ma è fedele a se stessa, al proprio passato (di cui è orgogliosa), al suo presente e al futuro. E’ come l’acqua salata. Non cambia mai.

 

 

Studio di Francesco Mattesini richiesto dal Capo dell’Ufficio Storico della Marina Militare, da portare all'attenzione delle Superiori Autorità.  (questo testo è consultabile anche in WIKIPEDIA)

 

Recentemente ho riletto con estrema attenzione il libro del Dott. Gianni Rocca, “Fucilate gli ammiragli”, e sono stato costretto a fare autocritica per gli affrettati giudizi negativi che avevo espresso, parlandone con i colleghi storici, nel lontano 1987, all’atto della pubblicazione dell’opera in questione. E ciò anche perché con i nostri libri e i nostri saggi pubblicati dall’editoria dell’Ufficio Storico della Marina Militare e nel suo Bollettino d’Archivio, nell’esporre critiche nei riguardi dei capi della Regia Marina, per la necessità di non fare sconti nella “revisione storica” di carattere ufficiale che mi venne assegnata, mi sono spinto molto più avanti di quanto non abbia fatto lo stesso Rocca.

 

L’unico appunto che si può fare all’autore di “Fucilate gli ammiragli” e quello di aver usato, per far presa sui lettori, frasi roboanti, dagli aggettivi giornalistici troppo forti, i quali però, inseriti nell’insieme della descrizione degli avvenimenti descritti, risultano, a volte, anche troppo generose. Critiche da esprimere nei riguardi dei responsabili della flotta, del centro e della periferia della Regia Marina ve ne sarebbero state da fare molte di più.

 

L’opinione del Dott. Rocca, che all’epoca della pubblicazione, verificatasi quando egli era vice direttore del quotidiano La Repubblica e che egli mi espose personalmente, era sostanzialmente la seguente. La scelta del titolo, “Fucilate gli ammiragli”, che certamente crea un grosso fastidio in una parte dell’opinione pubblica, fu mascherata con la condanna a morte degli ammiragli Campioni e Maschera e con l’approvazione dell’editore per motivi evidenti di vendita dei volumi; essa era in realtà un atto di accusa nei confronti di quei vecchi e mediocri personaggi che durante la guerra guidarono le sorti della Regia Marina, e che il Dott. Rocca considerava, diciamolo pure a ragione, i responsabili della nostra, per molti versi umiliante, guerra sul mare. Il suo giudizio conclusivo, perfettamente in linea con il mio pensiero, era stato il seguente:

 

Nella seconda guerra mondiale non vi era stato tradimento per agevolare il nemico, come l’Ultra aveva dimostrato. ma soltanto tanta e tanta incapacità e stupidità a livello umano e di pensiero. Avevamo dei capi mediocri ed anche scarsamente leali nei confronti dell’alleato tedesco al quale addebitarono, sembra un paradosso, la responsabilità di non aver voluto correggere, con maggiori aiuti diretti e cessione di materiale bellico, gran parte della nostra impreparazione e delle nostre sconfitte. Con tali personalità, dalla mentalità ristretta e dall’enorme presunzione, a dirigere le sorti del conflitto, i risultati negativi non potevano essere che quelli verificatisi.

 

Passo ora a descrivere quelli che secondo il mio giudizio sono i punti controversi da analizzare in una discussione critica.

 

Fermo restando che i giudizi espressi dal Dott. Rocca, nei vari capitoli della sua opera, nei confronti degli ammiragli comandanti (Cavagnari, Riccardi, de Courten, Campioni, Iachino, ecc.), vanno condivisi, altrimenti non si spiegherebbe la ragione della pubblicazione delle nostre monografie che portano ad una revisione storica doverosamente critica, osserviamo:

 

Il processo a Campioni e Maschera e ben descritto, così come è ben fatto, per non tornarci sopra con frasi ripetitive, ogni altro capitolo del libro. Resta però da stabilire (p. 15) se l’autore non si sia spinto troppo avanti nella sua critica, come io credo, sostenendo che con la fucilazione dei due ammiragli, ordinata da un tribunale militare, “Mussolini aveva voluto condannare proprio quella Marina che, a suo giudizio, nel momento della prova suprema, la guerra, lo aveva tradito dopo averne ricevuto benefici e potere. E tradito con infamia”. Vi sono in questa discutibile considerazione dell’autore degli aggettivi che mi sembrano troppo forti.

 

Battaglia di Punta Stilo. Aveva ragione Supermarina a non volere impegnare le due corazzate tipo “Littorio”, perché, dovendo agire la flotta italiana in Fleet in being – tattica che prevedeva di arrivare ad una battaglia navale soltanto in condizioni estremamente favorevoli, in quel momento ritenute non realizzabili – il loro impiego in mare non era necessario; e ciò anche perché il Littorio e il Vittorio Veneto, trovandosi in fase di addestramento, non erano ancora pronte a sostenere un duro combattimento con la Mediterranean Fleet.

 

Tre giorni prima, il 5 luglio 1940, lo stesso comandante della 9^ Divisione Navale, ammiraglio Bergamini, aveva segnalato a Supermarina le lacune delle artiglierie delle sue navi, non ancora a punto, anche per incidenti che si erano verificasti sulle torri di tiro principali della Littorio (Cfr. “Le direttive di Supermarina”, Doc. 139, p. 143 e “La battaglia di Capo Teulada”, Doc. 1, p. 231-232). Successivamente, l’8 luglio, a causa di un incendio che causò la morte di un operaio civile, fu missa fuori servizio per alcuni giorni la torre di grosso calibro n. 1 della stessa Littorio (Cfr. “La battagli di Punta Stilo” p. 39).

 

D’altronde, il fatto che l’ammiraglio Bergamini avesse telefonato da Taranto a Supermarina, per chiedere di autorizzarlo a salpare pe impegnare le sue navi in combattimento, è stato sostenuto soltanto dall’ammiraglio Iachino, e non trova alcun riscontro nei documenti degli archivi storici militari italiani.

 

Alla battaglia di Punta Stilo si arrivò soltanto per l’iniziativa del comandante britannico, ammiraglio Cunningham, che tagliando con le sue navi la rotta di rientro a Taranto della flotta italiana, la cui attenzione era rivolta verso sud-sud-ovest, costrinse l‘ammiraglio Campioni ad invertire, ad un tempo, la rotta della sua flotta, per andare a sostenere, in formazione molto scoordinata in cui le corazzate procedevano gli incrociatori, invece di seguirli, un affrettato combattimento, che non ci vide favoriti dalla sorte.

 

Il colpo inferto alla Cesare dalla Wasrspite (p. 26) era stato effettivamente grave, anche dal punto psicologico. L’episodio poneva allo sola Cavour il compito di fronteggiare con i suoi dieci cannoni da 320 i ventiquattro cannoni da 381 di ben tre corazzate britanniche. Il Dott. Rocca, pertanto, poteva risparmiarsi la frase di una flotta che stava fuggendo perché il suo comandante aveva “sopravvalutato la portata della botta che aveva ricevuto”, dando con ciò ragione al giudizio di parte, e non condivisibile, esposto da Cunningham: “Il colpo da 381 produsse effetto morale del tutto sproporzionato ai danni”.

 

Se la Cesare era stata costretta a ridurre la velocità, ciò significava che il colpo ricevuto non era da sottovalutare in quel particolare momento, e Campioni, sempre a nostri giudizio, avendo una delle sue due corazzate menomate, ebbe ragione a ritirarsi.

 

L’accusa che Supermarina, per togliersi da ogni colpa che potesse essergli addebitata nella ritirata della flotta, avesse lasciato al solo Campioni la responsabilità di una tale decisione (p. 27), è un giudizio di pura fantasia dell’Autore.

 

Azzeccata mi sembra invece, anche in seguito al bombardamento delle navi italiana da parte dei velivoli della Regia Aeronautica, la frase finale del capitolo (p. 28): “Punta Stilo in poche ore, aveva messo a nudo tutte le nostre deficienze. La guerra con gli inglesi era una cosa tremendamente seria: non avevamo più di fronte i poveri abissini”.

 

Sullo scontro di Capo Spada, mi sembra del tutto ingiustificato che il Dott. Rocca incolpi di quell’insuccesso tattico l’ammiraglio Casardi, che comandava la divisione dei due incrociatori Bande Nere e Colleoni. A parte i soliti aggettivi, scelti dall’Autore per far colpa sui lettori, la descrizione della battaglia – ed il successo britannico dovuto soprattutto alla precisione delle artiglierie delle loro navi e alla fragilità dei nostri incrociatori – è comunque corretta; lo stesso dicasi per i giudizi di un abbassamento di prestigio di Supermarina, già compromesso dopo l’episodio di Punta Stilo e per l’abbattimento dell’aereo di Italo Balbo, a Tobruch, da parte delle artiglierie dell’incrociatore San Giorgio (p. 35).

 

Gli episodi che portarono ai fallimenti dei mancati contatti balistici con la Mediterranean Fleet nello Ionio, alla fine di agosto e alla fine di settembre, sono stati sufficientemente trattati dagli ammiragli Iachino e Fioravanzo, il primo dei quali espose lamentele assai forti per l’operato di Supermarina (Cavagnari) nel non voler impegnare la flotta, che continuava ad essere usata in Fleet in being. Tattica, d’altronde, che era conforme alle direttive di Supermarina, convalidate dal Comando Supremo (Cfr.,“Direttive di Supermarina”, Doc. 21-22-23). Significativa è poi la risposta di Cavagnari ad un promemoria dell’ammiraglio Iachino, che chiedeva per la flotta un atteggiamento più offensivo (Cfr: “Direttive di Supermarina”, Doc. 27).

 

Sufficientemente ben descritto e lo sfortunato scontro tra le sette siluranti italiani e l’incrociatore britannico Ajax , verificatosi nella notte del 12 ottobre 1940 nelle acque ad oriente di Malta. Tuttavia, la sconfitta non fu determinata dal radar, in possesso dell’unità, dal momento che le nostre navi avvistarono per prime l’Ajax a grandissima distanza. L’insuccesso tattico deve essere pertanto addebitato, a dispetto della determinazione spinta nell’attacco a quell’incrociatore fino all’estremo sacrificio, alle nostre solite e ricorrenti lacune di addestramento al combattimento notturno.

 

Rocca ha poi perfettamente ragione sulle cause che condussero al disastro di Taranto nella notte dell’11 novembre 1940; disastro che però, come abbiamo sostenuto nel nostro saggio “La notte di Taranto” (Bollettino d’Archivio di settembre e dicembre 1998) poteva essere evitato se la flotta fosse stata mandata in mare per fronteggiare – all’occorrenza anche con la tattica del Fleet in Being – quella britannica. Quest’ultima era stata sufficientemente localizzata e pedinata a lungo dalla Ricognizione Marittima, i cui idrovolanti, purtroppo, non si accorsero, nel pomeriggio del giorno 10, che dirigendo da Malta verso Alessandria la Mediterranean Fleet non stavano passando a nord della Cirenaica, come a Roma si supponeva. La flotta britannica diresse, in realtà, verso un punto situato ad ovest dell’Isola di Cefalonia. In questa zona la portaerei Illustrious sviluppò quello che, a buon diritto, il Primo Ministro britannico Churchil definì “un attacco fracassatore”, visto il risultato ottenuto di tre corazzate italiane praticamente affondate.

 

Il giudizio di Rocca sulla decisione del Duce di far guerra alla Grecia, senza tener conto della prevedibile reazione britannica (p. 59), è un fatto storico pienamente riconosciuto, così come è incontestabile la “impreparazione di Supermarina ad una guerra moderna”.

 

Vi sono poi delle inesattezze nel capitolo riguardante la battaglia di Capo Teulada, in particolare quella dell’esatta causa del licenziamento dell’ammiraglio Cavagnari, già in disgrazia presso il Duce per l’episodio di Taranto. Il licenziamento del Sottosegretario e Capo di Stato Maggiore della Marina, fu preteso da Mussolini proprio in base al comportamento estremamente prudenziale che egli aveva imposto al Comandante Superiore in mare della flotta, ammiraglio Campioni, nel corso di quello scontro navale; scontro che fu combattuto dalle navi italiane, per evitare altre perdite, mostrando la poppa al nemico, e quindi sparando in rotta di vera fuga, come poi avrebbe sottolineato la radio e la stampa britannica.

 

Nell’esposizione di Rocca non è poi pienamente condivisibile l’affermazione (p. 69) che “l’intrigo dei rapporti e di complicità fra Supermarina e il Comando in mare erano stati tali, in quei primi mesi di guerra, che non si poteva fare piazza pulita, integralmente, senza mettere del tutto sotto accusa la Marina. Cavagnari pagava per tutti. Iachino che più degli altri ammiragli si era battuto contro di lui [sic] ne raccoglieva i frutti”. Egli, infatti, fu destinato al Comando della flotta, in sostituzione di Campioni, nominato Sottocapo di Stato Maggiore, e alle dipendenze del nuovo Capo della Regia Marina, ammiraglio Riccardi.

 

In verità non risulta che Iachino si fosse battuto più degli altri ammiragli di squadra per dare alla flotta un maggiore assetto offensivo. Anche l’ammiraglio Campioni lo aveva fatto, e con decisione, in particolare dopo il mancato contatto con il nemico nel corso delle missioni di fine agosto e di fine settembre 1940.

 

E’ invece da condividere l’affermazione (pag. 70) che “ogni giorno di guerra” in cui la Gran Bretagna manteneva l’iniziativa “portava alla luce l’impreparazione, il dilettantismo, la superficialità della nostra organizzazione militare”. Difetti che, in effetti, non erano tutti da assegnare al solo Cavagnari, il quale aveva guidato la Marina per sette anni, ma anche alla responsabilità di Mussolini che ne reggeva il dicastero assieme a quelli delle altre due Forze Armate.

 

Condivisibile è anche l’apprezzamento di Rocca sulla rinuncia a costruire la nave portaerei, e sulla mancanza, che si era verificata in tempo di pace, di una centralizzazione, non voluta dal Duce, per la direzione, sotto un’unica persona, delle Forze Armate. Lo stesso dicasi per la “scarsa attenzione” che “era dedicata alle continue innovazioni teorico-pratiche, sia nel campo della navigazione che nelle tecniche di combattimento”; nonché alla “formazione dei quadri”, e ai problemi connessi all’”addestramento”, alle “Innovazioni tecnico-scientifiche”, alla “politica delle costruzioni”, ai “rapporti con il fascismo” e alla “strategia navale”.

 

Elementi, secondo Rocca, in cui emergono senza dubbio le pesanti responsabilità di Cavagnari, un capo dittatoriale non amato dai colleghi e dai subalterni, anche per il suo carattere freddo e scostante. Questi, che al momento della prova di forza – di prendere il toro per le corna come si è espresso il Prof. Santoni – aveva fatto conoscere al Duce, purtroppo tardivamente, il suo pessimismo a sviluppare azioni offensive a largo raggio, che invece rientravano nei desideri dello stesso Mussolini. Il promemoria di Cavagnari, del 14 aprile, diretto proprio al Duce, e che per molto tempo è stato considerato come il frutto di una prova di saggezza, che oggi gli storici navali non condividono, ne è il classico esempio (Cfr., “Direttive di Supermarina”, Doc. 71, p. 272).

 

L’intervento della Luftwaffe nel Mediterraneo, e poi quello dell’Africa Korps in Libia, che il Duce era stato costretto ad invocare presso Hitler nel novembre 1940, e che si realizzò nell’inverno e nella primavera dell’anno seguente, furono veramente gli elementi determinanti per impedire il tracollo dell’Italia, che era battuta dal nemico ovunque, in terra, in cielo e in mare.

 

Quanto alla “beffa di Genova”, Supermarina non si fece sorprendere, come sostiene l’Autore, e non “trascurò” la possibilità che la Forza H britannica, uscita da Gibilterra, intendesse attaccare nel Golfo Ligure. Per questo la flotta dell’ammiraglio Iachino fu inviata ad incrociare ad ovest della Sardegna nord-occidentale, con l’ordine di dirigere dapprima verso occidente e poi, tornando a nord, di portarsi nel canale tra la Corsica e la costa francese; una scelta strategica, molto abile, che avrebbe permesso di tagliare la rotta della ritirata alla Forza H se, effettivamente, avesse diretto verso Genova.

 

Questo avvenne puntualmente, ma l’ammiraglio Iachino che avrebbe dovuto adeguare al successo strategico quello tattico, mostrando subito tutte le sue lacune di ragionamento, ed anche di mancanza di fortuna – che, come diceva Napoleone, era la dote migliore di un buon generale – non seppe approfittarne.

 

Dapprima, prendendo un’iniziativa che non era suffragata dagli ordini ricevuti, che indicavano di dirigere verso occidente, l’ammiraglio aveva diretto a sud-est dell’Asinara, ritenendo che la flotta britannica si trovasse da quella parte; e quando poi fu avvertito da Roma, con molto ritardo, causato dall‘imperdonabile mancanza di tempestività nel segnalare la presenza del nemico nel Golfo Ligure da parte dei locali Comandi di Marina, pur trovandosi molto arretrato rispetto a quanto aveva previsto Supermarina, egli aveva ancora la possibilità di intercettare le navi britanniche che si stavano ritirando da Genova, seguendo la rotta prevista da Roma.

 

A questo punto Iachino aveva la possibilità di far rimpiangere al nemico la sua audacia, infliggendogli una dura punizione, disponendo di forze nettamente superiori e del vantaggio della posizione, perché operava in una zona che era sotto il pieno controllo della Regia Aeronautica. Ma, i velivoli di quest’ultima commisero una serie di gravissimi errori. Infatti, pur avvistando in quattro occasioni la Forza H, una volta mancarono di segnalarla in volo, ed altre tre volte evitarono di trasmettere il segnale di avvistamento, avendola scambiata per la flotta italiana. (vds. il mio saggio sul Bollettino d’Archivio di giugno 1990).

 

Non ricevendo notizie, ed estremamente impazientito per quell’anomalia, Iachino ordinò un intempestivo ed illogico cambiamento di rotta verso la Corsica, nell’illusione che il nemico si trovasse a passare da quella parte; ed in tal modo si fece sfuggire la preda, che proprio in quel momento si trovava a transitare sul lato opposto, esattamente al centro del canale tra l’isola francese e la costa del continente, e a sole 30 miglia di distanza dalla flotta italiana.

 

Il giudizio che il Dott. Rocca fornisce sulla missione che portò alla perdita del Diaz (p. 97-98) non è condivisibile, in quanto gli incrociatori in mare erano considerati necessari per assicurare – secondo i giusti desideri tedeschi e per fronteggiare una possibile minaccia navale – la protezione dei convogli dell’Afrika Korps. La distruzione del convoglio “Tarigo”, verificatasi il 16 aprile 1941 e che poi costrinse Supermarina a schierare nella protezione del traffico con la Libia anche la divisione degli incrociatori pesanti, lo avrebbe ampiamente dimostrato.

 

Il dramma di Matapan

 

Il capitolo è perfettamente in sintonia che le tesi più volte esposte dall’ammiraglio Iachino, e quindi, logicamente, non è aggiornato secondo quanto da me ampiamente trattato nella poderosa pubblicazione stampata nel 1998 dall’Ufficio Storico.

 

Ne consegue, pertanto, che Iachino, a differenza di quanto sostiene l’Autore di “Fucilate gli ammiragli”, partì il 26 marzo 1941 da Napoli, con la Vittorio Veneto, ben consapevole di quale fosse la situazione di efficienza della flotta britannica di Alessandria; notizie che poi gli furono confermate in mare, aggiornate sulla base delle segnalazioni dei ricognitori germanici e italiani, inviati nel corso della giornate del 26 e del 27 a tenere sotto controllo la presenza in porto delle navi nemiche.

 

Di questa realtà Iachino avrebbe dovuto tenere ben conto quando, il mattino del 28, si spinse a levante di Gaudo per inseguire gli incrociatori britannici dell’ammiraglio Pridam-Wippell. Ma soprattutto, avrebbe dovuto agire con maggiore cautela nel decidere di mandare in soccorso al silurato e immobilizzato Pola tutte gli altri incrociatori e i cacciatorpediniere della 1^ Divisione Navale, e tenere il debita considerazione le notizie ricevute dal capo della sezione del servizio informazioni di Maristat, imbarcata a Napoli sulla Vittorio Veneto. Nel contempo, non avrebbe dovuto sottovalutare le segnalazioni trasmesse dalla ricognizione aerea che avevano avvistato, in almeno tre occasioni, il grosso della Mediterranean Fleet, notizie che state ritrasmesse da Supermarina, assieme a due apprezzamenti della situazione nemica, ricavati dalle intercettazioni radio, chiaramente indicanti che la Mediterranean Fleet stava seguendo la flotta italiana.

 

Fu quindi l’errato apprezzamento di Iachino, discusso con gli ufficiali del suo Stato Maggiore la sera del 28 marzo, e che portava a stabilire la non pericolosità delle navi inseguitrici – ritenute erroneamente incrociatori – a condurre la 1^ Divisione Navale sotto i cannoni delle tre corazzate dell’ammiraglio Cunningham.

 

I dubbi esposti da Rocca, sul comportamento difensivo di Iachino che addebito ogni colpa del suo fallimento a Supermarina, accusata dall’ammiraglio di non averlo appoggiato da Roma con propri apprezzamenti della situazione, sono in gran parte ingiusti; e ciò soprattutto considerando che l’ammiraglio Riccardi, preoccupato per la sorte della flotta e per evitarne perdite, aveva strappato al Duce l’autorizzazione per affondare il Pola. Purtroppo questa autorizzazione, che avrebbe tolto a Iachino la responsabilità di prendere una tragica decisione, arrivo allo sfortunato ammiraglio troppo tardi.

 

Sui cacciatorpediniere della squadriglia “Alfieri” che erano stati disposti dall’ammiraglio Cattaneo a poppa degli incrociatori, invece di precederli, occorre fare una doverosa precisazione. Anche se l’argomento è stato ampiamente trattato, in modo che ritengo sia condivisibile, nella mia opera “L’operazione Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan”, occorre ribadire, per non dimenticarlo, che appare del tutto falso quanto sostenuto da Iachino – e ripreso pari pari da Rocca – sulle norme d’impiego della squadra. L’ammiraglio Iachino, mentendo, sostenne e ribadì, nei suoi numerosi scritti, che fin da quell’epoca le norme d’impiego della Squadra fissavano, per i cacciatorpediniere, di procedere le grandi navi nel corso della navigazione notturna.

 

L’ex Comandante in Capo della flotta non poteva certamente dimenticare che a queste norme vi erano delle eccezioni, le quali stabilivano che nel corso di notti con scarsa visibilità i cacciatorpediniere dovessero seguire, e non precedere, le grandi navi, navigando in unica o doppia linea di fila. L'ammiraglio Cattaneo, pertanto, si era attenuto, in una notte molto buia, a quelle norme tassative, in cui gli incrociatori, nel caso di una minaccia nemica e per evitare pericolosi equivoci di individuazione del bersaglio, avrebbero dovuto avere a prora il campo libero per il tiro delle loro artiglierie. Per questi motivi le stesse regole vigevano anche nella Royal Navy, come abbiamo dimostrato trattando nel Bollettino della manovra notturna che portò alla distruzione del convoglio “Duisburg”, in cui gli incrociatori britannici procedevano i cacciatorpediniere di scorta.

 

E’ quindi da censurare il sibillino tentativo di Iachino, purtroppo riuscito – perché proprio confermato nella seconda edizione del libro di Rocca – di indicare in Cattaneo il massimo responsabile del disastro di Matapan, e nel contempo, come sostiene giustamente l’Autore di “Fucilate gli ammiragli”, di “coinvolgere Supermarina nelle sue stesse responsabilità” (p. 141). E poiché, come giustamente sostiene Rocca, “il problema non posto ma esplicito per entrambi i comandi – di terra e di mare – era quello di salvare la faccia e soprattutto le poltrone”, nel giustificarsi poi con Mussolini vi fu, da parte di Iachino e di Riccardi, l’abilità di assegnare gran parte della responsabilità della sconfitta subita alla Regia Aeronautica e alla Luftwaffe; con ciò dimenticando, forse, che le lacune di appoggio aereo, per la distanza dalle basi in cui avrebbe operato la flotta, erano state tenute in debita considerazione al momento della pianificazione dell’operazione “Gaudo”.

 

A questo punto, non essendo saggio di apportare una nuova variazione di responsabilità in entrambi gli alti comandi della Marina, dopo quella recentissima attuata con Cavagnari, lo scopo di salvare le poltrone era pienamente riuscito. “Tutto finì all’italiana” (p. 141), e Iachino poté allontanarsi da Palazzo Venezia con la benedizione del Duce, che lo invitò ad ottenere al più presto una rivincita.

 

Infine, non condivido l’opinione del Dott. Rocca, secondo il quale era da criticare il fatto che durante l’operazione si fossero succeduti nel salone operativo di Supermarina tre ammiragli (Fioravanzo, Ferreri e De Courten), ognuno dei quali possedeva “mentalità” e “difformi criteri di valutazione”. Per questi motivi, sostiene Rocca, nell’operazione era venuta a mancare “un unicità di direzione”, che poi, per lo stesso motivo, sarebbe continuata a mancare anche nel futuro.

 

E’ mia opinione che, con queste affermazioni, Rocca abbia fatto un grosso scivolone, fornendo illogiche considerazioni. Ricordiamo, al proposito, che in tutte le marine belligeranti era in vigore lo stesso concetto del cambio dei turni di servizio nelle sale operative, ma poi vi era sempre un unico responsabile nell’assumersi le decisioni più scabrose. Nel caso di Supermarina, all’epoca di Matapan la responsabilità di decidere era nella persona del Sottocapo di Stato Maggiore, ammiraglio Campioni, il quale, però, solo nei casi comuni o più urgenti agiva di propria iniziativa, dal momento che teneva al corrente di tutto l’ammiraglio Riccardi. Quest’ultimo, nella sua inopportuna carica di Sottosegretario di Stato, perché lo aberrava di compiti anche a livello politico, emanava le direttive e ordinava di approntare i piani operativi, che poi portava all’attenzione del Comando Supremo e del Duce.

 

Nella campagna di Creta (operazione Merkur), iniziata con lo sbarco dei paracadutisti tedeschi il 20 maggio, i tedeschi, come giustamente sostiene il Dott. Rocca, chiesero alla Regia Marina di intervenire con la flotta da battaglia; ma, come è dimostrabile nelle “Direttive di Supermarina” (volume 2°, tomo 1°) e prodotto anche nella mia opera “L’attività aerea italo-tedesca nel Mediterraneo” (p, 247-248), edito dall’Ufficio Storico dell’Aeronautica, a Berlino ribevettero un netto rifiuto da parte dell’ammiraglio Riccardi.

 

Tale rifiuto fu motivato per i seguenti due motivi principali:

 

1°) per una inferiorità navale rispetto alla Mediterranean Fleet, che assolutamente non esisteva;

 

2°) per la mancanza di protezione aerea, in una zona che – come poi fu confermato dalle perdite subite dalla Royal Navy – era in realtà pienamente controllata dalla Luftwaffe, con l’appoggio dell’Aeronautica italiana dell’Egeo.

 

L’aver rinunciato a quella favorevole occasione, che in pratica rappresentava “una negazione della strategia”, come giustamente ha scritto l’ammiraglio Bernotti in “Storia della guerra nel Mediterraneo” (p. 171), fu un gravissimo errore poiché l’intervento navale italiano poteva risultare decisivo per infliggere altre gravissime e forze decisive perdite alla flotta britannica.

 

Ne conseguì che l’onore delle armi per la Regia Marina fu, almeno in parte, salvato soltanto dalle piccole torpediniere Lupo e Sagittario, che effettuarono audaci attacchi, per proteggere i convogli di motovelieri che erano stati loro affidati; attacchi che però, a scanso di equivoci ancora oggi ricorrenti, non furono confortati da alcun reale successo.

 

Sull’allontanamento dell’ammiraglio Campioni dalla carica di Sottocapo di Stato Maggiore (p. 155), verificatosi a metà luglio 1941, l’affermazione di Rocca che ciò sarebbe avvenuto a causa delle critiche di Iachino il quale lo aveva accusato “di debolezza strategica nei confronti di Supermarina” (sic) non mi sembra convincente. L’allontanamento di Campioni da quell’alto incarico è infatti rimasto un mistero, che forse trova le sue ragioni nell’inchiesta che era seguita all’episodio di Capo Matapan, e i cui esiti si ebbero proprio nel luglio 1941.

 

Posseggo, infatti, copia di una lettera, esistente nell’Archivio di Stato, in cui il Capo di Gabinetto dell’ammiraglio Riccardi, capitano di vascello Aliprandi, rassicurava Iachino di stare tranquillo per gli esiti dell’inchiesta che risultava a lui favorevole. Fu semmai l’atteggiamento offensivo di Campioni e non la sua eccessiva prudenza, come afferma Rocca, a determinare il suo siluramento, peraltro mascherato con la nomina a Governatore e di Capo delle Forze Armate dell’Egeo, che era un settore di guerra ormai divenuto alquanto tranquillo.

 

Anche i giudizi sullo svolgimento dei movimenti navali italiani e sulla condotta delle operazioni verificatisi nel corso del contrasto all’operazione britannica “Halberd”, alla fine di settembre 1941, sono in gran parte campati in aria, come può essere constatato nel mio saggio pubblicato nel Bollettino d’Archivio di dicembre 1990.

 

Il Dott. Rocca ha comunque ragione ad addebitare la “fuga” della flotta alla responsabilità di Iachino. La discutibilissima ritirata fu motivata dall’ammiraglio con le inesattezze delle informazioni ricevute da Supermarina e dai Comandi della Regia Aeronautica, mentre in realtà, dirigendo verso il nemico, Iachino sospese l’azione temendo di essere attirato in una trappola, determinata da una supposta inferiorità numerica in navi da battaglia (tre contro due), e di arrivare al combattimento con condizioni di visibilità sfavorevoli, in cui il nemico avrebbe avuto la possibilità di aprire per primo il fuoco. Risultato psicologico dei fantasmi di Matapan, che attanagliavano l’animo di Iachino ,e quindi un insieme di incertezze e di eccessive prudenze tattiche da parte di quell’uomo, in definitiva il ripetersi di lacune che avrebbero dovuto consigliarne la sostituzione nel Comando della flotta.

 

Naturalmente i responsabili della Regia Aeronautica, che secondo quanto previsto nella Di.Na. 7 (Cfr. Bollettino d’Archivio di settembre 1999) avevano impegnato gli aerosiluranti della Sardegna a massa per mettere fuori combattimento le navi da battaglia avversarie, e che erano riusciti, con il sacrificio del colonnello Seidl a colpire la Nelson, mettendola fuori combattimento, ma riportando per contro altre gravissime perdite, ebbero molto, e con ragione, a recriminare. Questa fu infatti una delle cause principali per cui nel dopoguerra si ebbe tra Aeronautica e Marina una durissima e mai sopita diatriba.

Sull’Ultra nulla da osservare, è tutto esatto anche se scritto con qualche pesante aggettivo di troppo. Dubito però che il peso dei successi di quell’organizzazione crittografica britannica (p 163) possa essere stato “spesso controbilanciato”, almeno nel campo navale, dalle notizie trasmesse dal nostro modesto Servizio Informazioni Segrete (SIS), e dalle notizie, ben più precise, ricevute dal SIS (come a Punta Stilo) dal ben più efficiente B-Dienst della Kriegsmarine.

 

La scoperta del convoglio “Duisburg” da parte della Forza K di Malta (p. 167), verificatosi nella notte sul 9 novembre 1941, non fu assolutamente da addebitare al radar del nemico ma alla vista acuta, e fornita di un buon binocolo, di una vedetta britannica dell’incrociatore Aurora, che guidava la marcia delle navi britanniche. Anche la successiva manovra di avvicinamento, sviluppata dal lato più favorevole per portare il devastante attacco, si verificò per ben diciassette minuti senza che gli italiani si accorgessero della minaccia.

 

Dal momento che il nemico aprì il fuoco dalla distanza di 5.000 metri, e l’avvistamento si era verificato alla distanza di circa 15.000 metri, può apparire vi sia il sospetto di una scarsa vigilanza sulle navi italiane, mentre in realtà, nelle cause del disastro, vi influì, ancora una volta, e non sarebbe stata l’ultima, la scarsa attitudine degli italiani a combattere di notte; e ciò a causa delle vistosissime, e già più volte riscontrate, lacune di addestramento a quel tipo di combattimento, ove servivano, più che il radar di quell’epoca, ancora imperfetto, buone attrezzature ottiche, d’avvistamento e di tiro, e prontezza e precisione nel colpire con cannoni e siluri.

 

Il termine scelto da Rocca per indicare le navi mercantili del convoglio simili a “pecore indifese” (p. 168) non può piacere, ma può essere giustificato dal fatto che i sette piroscafi dell’intero convoglio erano tutti in fiamme dopo soli sette minuti di fuoco nemico, assieme a due cacciatorpediniere della scorta.

 

Quanto al comportamento tenuto dall’ammiraglio Bruto Brivonesi, comandante della 3^ Divisione incrociatori pesanti assegnata alla protezione del convoglio, che aveva erroneamente manovrato nel tentativo di contrasto all’azione nemica – come è stato dimostrato in modo esaustivo nel mio saggio pubblicato nel Bollettino d’Archivio di settembre e dicembre 1996 – esso fu giudicato dal Tribunale di Guerra. Ma ancora una volta, essendo molte le responsabilità del disastro e i responsabili da ricercare anche altrove, tutto finì all’italiana, con la piena assoluzione di Brivonesi, e con un incarico di comando a terra di grande responsabilità, quello di Sottocapo di Stato Maggiore Aggiunto.

 

Nel resto del capitolo, “Assedio alla Libia”, appare chiara l’amarezza dell’Autore nel trattare episodi della nostra storia, riferiti alla battaglia dei convogli dell’autunno-inverno 1941. Episodi che non debbono essere dimenticati, perché mostrano chiaramente quale fosse allora lo stato d‘incapacità e di frustrazione che attraversava l’intera casta politico-militare del nostro paese, incapace di reagire senza l’aiuto tedesco, che fu nuovamente richiesto ed anche preteso. Cfr. sul Bollettino d’Archivio i miei saggi sulla crisi dei convogli libici, di settembre e dicembre 2000, e sullo scontro di Capo Bon del settembre 1991.

 

Nei riguardi dello scontro di Capo Bon, del 13 dicembre 1941, vi è da osservare che, anche se vi fosse stata una efficiente scorta di siluranti disposti a prora degli incrociatori Di Giussano e Da Barbiano, essa avrebbe potuto fare ben poco per proteggere quelle navi. La manovra d’urgenza ad un tempo per contromarcia effettuata dall’ammiraglio Toscano, per mettere la rotta sui cacciatorpediniere britannici che arrivavano da nord, ne avrebbe, infatti, annullato in gran parte l’effetto difensivo. In quell’occasione, può sembrare un paradosso, era da rimpiangere la mancanza di siluranti disposte a poppa degli incrociatori.

Fu proprio per la necessità di fronteggiare nel modo più efficace il pericolo notturno che poteva presentarsi da ogni direzione, che la Marina statunitense, dopo le prime batoste prese dai Giapponesi nella campagna di Guadalcanal, decise di operare di notte tenendo parte dei cacciatorpediniere di scorta di prora agli incrociatori e un’altra parte di poppa.

 

La spiegazione degli insuccessi conseguiti in Mediterraneo dai sommergibili italiani rispetto ai risultati estremamente positivi conseguiti dagli U-boote tedeschi é corretta, ed è basata su quanto da me scritto in “La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo”; libro che, su esplicita richiesta, avevo donato all’Autore di “Fucilate gli ammiragli”. Convincenti sono anche i due capitoli sui mezzi d’assalto, per la cui compilazione il Dott. Rocca ha consultato quanto scritto dal comandante Borghese e, per l’Ufficio Storico, dal Dott. De Risio.

 

Il comportamento di Iachino, nel corso della battaglia della 1^ Sirte, fu effettivamente “troppo improntato alla prudenza” (p. 217). Vi fu da parte dell’ammiraglio troppa incertezza nell’affrontare lo scontro con gli incrociatori britannici, che si sviluppò brevemente, il 17 dicembre 1941, nell’incerta luce del tramonto del sole, e con le corazzate italiane che spararono da grande distanza. Con una maggiore determinazione decisionale, la battaglia avrebbe potuto svilupparsi almeno prima del tramonto e con effetti disastrosi per il nemico.

 

Gli errori di comportamento tattico di Iachino continuarono a manifestarsi, ma l’ammiraglio restava sempre al suo posto. Peggio ancora si sarebbe comportato nella battaglia della 2^ Sirte, del 22 marzo 1942, giustificando poi ogni suo errore di manovra con le sfavorevoli condizioni del mare in cui si era svolta la battaglia. Occorre però dire che i ripetuti piagnistei di Iachino non erano da giustificare perché, soffiando il vento da sud, quelle condizioni atmosferiche finirono, logicamente, per creare un maggior disagio alle più leggere navi britanniche, che erano state costrette a manovrare nella tempesta in aumento con le onde sopraggiungenti da poppa.

 

Se in queste condizioni le navi britanniche potevano navigare e sparare, con maggiore efficacia rispetto a quelle italiane, ciò era dovuto ad una loro migliore stabilità, specialmente nelle piattaforme delle artiglierie. Vi influiva poi il solito vantaggio di un maggiore addestramento in ogni tipo di combattimento, provenendo la scuola dei marinai britannici da una mare, l’Atlantico settentrionale, dalle caratteristiche atmosferiche particolarmente tormentate, specie d’inverno. Il Mediterraneo era tutt’altra cosa, e l’operare in condizioni di mare estremamente difficili non rientrava nei sistemi di addestramento italiani, e neppure nelle caratteristiche nautiche delle nostre navi. Di qui, dopo la delusione della 1^ battaglia della Sirte, l’espressione coniata dal feldmaresciallo Kesselring, Comandante in Capo tedesco del settore del Mediterraneo, di “Marina del bel tempo”.

 

Anche questa battaglia è ben documentata e ben commentata dal Dott. Rocca. Sono condivisibili, a mio parere, le osservazioni fatte sulla cautela iniziale e sulla discussa manovra dell’ammiraglio Parona, per attirare gli incrociatori leggeri e i cacciatorpediniere dell’ammiraglio Vian verso la Littorio, che arrivava da nord, seguendo gli incrociatori pesanti della 3^ Divisione Navale. Altrettanto convincente risulta, l’affermazione della “mancata scelta di campo sottovento fatta da Iachino”, che avrebbe permesso di tagliare al nemico la rotta per Malta, e al suo tardivo avvicinamento finale alle navi di Vian”, che, pertanto, poté considerarsi “a buon diritto” il “vincitore della battaglia” (p. 231).

 

A questo punto occorre dire che gli errori di manovra non appartenevano ad un solo ammiraglio, dal momento che tutti i più apprezzati comandanti italiani stavano continuando a fallire. E questo, diciamolo pure, non derivava soltanto dal fatto, tanto sbandierato da Iachino, che gli ufficiali con funzioni di comando in mare, erano sempre condizionati da ordini di operazione, impartiti direttamente da Roma, che imponevano di esercitare prudenza. Nel campo tattico, in cui i risultati erano scadenti quando affrontati con superiorità di forze, le incertezze, la scarsa combattibilità e la mancanza di risultati erano, invece, sempre da addebitare ai comandanti impegnati.

 

Sono da condividere anche le spiegazioni dell’Autore esposte nel capitolo “Il miraggio delle Piramidi”, ed in particolare, per la parte che ci riguarda, i tentennamenti della Marina nella pianificazione dell’operazione “C.3”, lo sbarco a Malta, che non era ben vista perché considerata avventura troppo pericolosa.

 

Con la battaglia di Pantelleria, del 15 giugno 1942, si verificò un altro grossolano errore di manovra da parte dell’ammiraglio Da Zara, il quale, interrompendo un combattimento che si stava svolgendo favorevolmente per aggirare, da nord, un campo minato, permise a due piroscafi di un convoglio britannico, proveniente da Gibilterra e già menomato dagli attacchi della Regia Aeronautica e della Luftwaffe, di raggiungere Malta.

 

L’episodio del combattimento, vantato dalla stampa di regime e poi anche dalla storiografia ufficiale italiana, come un grande successo della 7^ Divisione Navale di Da Zara, appare in realtà, alla luce degli avvenimenti che seguirono, uno dei peggiori risultati tattici e soprattutto strategici della nostra storia navale. E questo anche perché, come giustamente ha sottolineato il Dott. Rocca, rese vano il riuscito tentativo del grosso della flotta, guidata da Iachino, di impedire il contemporaneo rifornimento di Malta da levante, e perché permise all’isola fortezza, con l’arrivo dei due piroscafi del convoglio di ponente, di resistere fino alla metà di agosto, quando, con la grande operazione britannica “Pedestal”, arrivarono a La Valletta altri cinque piroscafi, con 32.000 tonnellate di rifornimenti e 11.000 tonnellate di benzina avio.

 

In conclusione ha scritto giustamente il Dott. Rocca, con la sua presunzione di aggirare il convoglio nemico, l’ammiraglio Da Zara effettuò “un’azione scoordinata rispetto alle esigenze”. Ne conseguì che “la battaglia di mezzo giugno”, vantata da Mussolini come una grande vittoria, “sarebbe stata l’ultima azione in massa della flotta da guerra italiana, prima della catastrofe finale” (p: 250).

 

La successiva operazione “Pedestal” fu pianificata dai britannici nell’ultimo disperato tentativo di togliere il blocco di Malta, la sola pedina che poteva permettere di continuare a menomare i convogli italiani diretti in Libia, e di agevolare, considerevolmente, l’offensiva dell’8^ Armata del generale Montgomery ad El Alamein ed il quasi contemporaneo sbarco nei territori dell’Africa settentrionale francese. La battaglia che ne seguì, chiamata di mezzo agosto, fu un insuccesso italiano a livello strategico.

 

Il convoglio della “Pedestal”, partito dall’Inghilterra con una possente scorta, fu vittoriosamente contrastato e martoriato, in sede tattica, dall’aviazione dell’Asse e dai sommergibili e dal naviglio sottile italiano e tedesco. Esso perse ben nove delle quattordici navi mercantili che lo costituivano, nonché una nave portaerei, un incrociatore e un cacciatorpediniere della scorta; per non parlare poi di quelle altre unità della scorta (una portaerei e due incrociatori) messi fuori servizio per molti mesi.

A questo punto della battaglia, transitando le navi superstiti del convoglio a sud di Pantelleria, avrebbero dovuto intervenire due divisioni d’incrociatori italiani. I loro compito sarebbe stato agevolato dal fatto che le navi nemiche stavano procedevano frazionate e con le menomate unità della scorta che erano per numero e per potenza insufficienti per a contrastare la nuova minaccia.

 

Tuttavia come ho messo in risalto nell’opera “La battaglia di mezzo agosto”, sulla scelta di Supermarina di non impiegare le navi, che si realizzo quando esse, dirigendo a sud, si trovano all’altezza di Trapani, influì il timore di Supermarina di dover subire attacchi notturni da parte degli aerosiluranti decollati da Malta. Ma soprattutto, il ritiro delle due Divisioni Navali fu determinato dal timore, del tutto infondato, di dover rischiare un combattimento notturno contro un gruppo navale nemico comprendente una corazzata, che Roma ritenne avrebbe intercettato gli incrociatori italiani nel Canale di Sicilia.

 

Il Duce, fidandosi di quanto gli veniva riferito su quest’ allarmante previsione, e mostrando – invece di imporsi come sarebbe stato suo dovere di Capo delle Forze Armate italiane – un carattere debole, non seppe controbattere le richieste di ritirare gli incrociatori proposte dal Capo del Comando Supremo, maresciallo Cavallero, che le aveva concordate con il sempre prudente ammiraglio Riccardi.

 

Il dott. Rocca sostiene che il maresciallo Kesselring, essendo rimasto scandalizzato dalle scarse prove offerte dalla Regia Marina nelle battaglie della 2^ Sirte e di Pantelleria, aveva deciso di operare in modo autonomo, negando la scorta aerea alle divisioni navali, perché “ormai sfiduciato nei confronti delle capacità italiane” (p. 263). La realtà è alquanto diversa, perché Kesselring, disponendo soltanto di una cinquantina di velivoli da caccia, che erano intensamente impiegati a sostenere le azioni offensive di circa centocinquanta bombardieri, non poteva fare altro. Pertanto, la sera del 12 agosto, comunicò al Comando Supremo di non poter aderire alla richiesta di Supermarina.

 

A questo punto si dovette trovare la scorta in una sola direzione, e cio avvenne tramite un accomodamento voluto dal maresciallo Cavallero, il quale convinse il Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica ad accordare i necessari velivoli per la protezione delle navi italiane. Si trattava di un grosso sacrificio, perchè anche il generale Fougier dispooneva in Sicilia di una quantità di aerei da caccia appena necessari per scortare soltanto una parte delle sue formazioni offensive. E ciò era già stato dimostrato dal fatto che, nel pomeriggio del giorno 12, egli aveva dovuto rinunciare, per il detto motivo, all'impiego di ben quaranta bombardieri, per riservare i ventotto moderni Mc. 202 del 51° Stormo Caccia alla scorta di nove bombardieri in picchiata Ju. 87 e di quattordici aerosiluranbti S.79.

 

Una volta che l’accomodamento per la scorta aerea alle navi era stato trovato, a mezzanotte del 12 agosto si verificò la rinuncia al loro impiego. Fu certamente uno dei più gravi errori della guerra, che fu anche pagato duramente, perché – come giustamente sostiene l’Autore di “Fucilate gli ammiragli”, “in guerra se non si rischia si finisce sempre per perdere” (p. 265) – nella rotta del rientro il sommergibile britannico Unbroken silurò i due incrociatori Bolzano e Attendolo mettendoli fuori combattimento per il resto del conflitto.

 

In conclusione, una valutazione errata sulle forze navali nemiche che transitavano nel Canale di Sicilia, impedì alla Regia Marina di conseguire un successo tattico e strategico di vasta portata, che avrebbe potuto conseguire risultati favorevoli anche per la battaglia di El Alamein e ritardare, forse di molti mesi, lo sbarco degli Alleati nel Nord Africa Francese. L’aver ritirato gli incrociatori italiani permise invece alla Royal Navy di poter vantare, indubbiamente, il conseguimento di una vittoria strategica di grandissima importanza, i cui risultati, come scrisse all’epoca a Berlino l’ammiraglio tedesco Weichold, Comandante della Kriegsmarine in Italia, “non avrebbero tardato a farsi sentire”.

 

In autunno e nell’inverno 1942-1943 Supermarina, pur spostando il nucleo più efficiente della flotta da Taranto a Napoli, per agire in “Fleet in being” nei confronti del nemico sbarcato in Marocco e Algeria, “non intese sacrificare le unità maggiori che continuarono a rimanere inattive nei porti settentrionali del Tirreno” (p. 272). Nello stesso, a dispetto dei piani preparati, l’organo operativo dell’Alto Comando navale preferì non rischiare l’impiego degli incrociatori in puntate offensive di disturbo allo svolgimento del traffico nemico che si spingeva sulle coste della Tunisia, per rifornirvi le truppe combattenti.

 

Ne risultò che, non svolgendo missioni di carattere bellico che pure erano realizzabili, affrontando, naturalmente, i necessari rischi, quelle stesse navi, che erano state spostate da Napoli e da Messina a La Spezia e a La Maddalena, non si salvarono dalla distruzione, a causa dei bombardamenti a tappeto svolti dalla R.A.F. e dalla Royal Force statunitense nella primavera del 1943. In definitiva, le incursioni degli Alleati, eliminando molte navi, inclusi gli incrociatori Attendolo e Trieste, e danneggiando gravemente gli incrociatori Montecuccoli e Gorizia e, a più riprese, le corazzate Littorio, Vittorio Veneto e Roma, realizzarono quegli affondamenti e quei danni che a Roma si era voluto evitare in azioni offensive, senza ottenere, per contropartita, alcun successo.

 

La teoria del “Fleet in being” si stava dimostrando un vero fallimento, ma questo a Roma, se la lezione fu compresa, non portò ad alcun cambio di strategia, facendo, ragionevolmente, infuriare i tedeschi. Essi allora chiesero a Supermarina di destinare i cacciatorpediniere della flotta per il rifornimento della Tunisia, anziché restare confinati a La Spezia, ottenendone però un netto rifiuto, motivato col fatto che i cacciatorpediniere servivano per scortare le grandi navi al momento in cui il nemico sarebbe sbarcato sulle spiagge dell-Italia. Era un utopia.

 

La campagna di Tunisia cessò il 13 maggio 1943 con la resa delle forze italo-tedesche, rimaste chiuse in una trappola. Forse, a similitudine di quanto avevano fatto gli inglesi in Francia, in Grecia e a Creta, si sarebbe potuto tentare di organizzare un’evacuazione. Ma per farlo dovevano essere impiegati tutti i mezzi navali disponibili, e nessuno, a Roma, si sentì di rischiare, prevedendo di dover sostenere combattimenti e di riportare perdite considerevoli, in una zona, quella del Canale di Sicilia, che era ormai dominata dalla Marina e dall’aviazione degli anglo-americani.

 

Sulla “resa di Pantelleria”, verificatasi il 10 giugno prima che avesse inizio l’invasione della Sicilia e che fu giustificata dall’ammiraglio Pavesi con la “mancanza d’acqua”, si deve concordare con le affermazioni del Dott. Rocca, che però è stato alquanto generoso scrivendo che era stata presa un decisione “prematura dal punto di vista militare” (p. 282), mentre invece ci sarebbe stato da dire molto di più. Di acqua, sgorgante da numerose sorgenti, ve ne era a sufficienza per la numerosissima guarnigione e per la popolazione, e di armi di ogni calibro ve ne erano molte e ben fornite di munizioni. Ne consegue, pur apparendo alquanto cattivi, di dover dedurre che, arrendendosi senza sparare un colpo di cannone quando il nemico si trovava ancora lontano dalle spiagge, nella fortezza di Pantelleria mancò solo il coraggio del suo Comandante.

 

Errato e poi il giudizio del Dott. Rocca nel sostenere che la flotta italiana non intervenne in Sicilia, per contrastare lo sbarco degli Alleati, perché “erano stati promessi” per la scorta aerea “soltanto 40 velivoli”. La verità era invece che ormai, pensando all’armistizio da concordare con gli anglo-americani, la flotta era considerata come una preziosa merce di scambio, da non sacrificare, per ottenere condizioni di pace più favorevoli.

 

Io, ho più volte scritto nei Bollettino d’Archivio, trattando l’argomento nei saggi “L’armistizio dell’8 settembre” (giugno e settembre 1943) e “La Marina del regno del sud” (giugno, settembre e dicembre 1994), che si tratto di una vera illusione. La sorte della nostra flotta, infatti, era già stata decisa tra Roosevelt e Churchill, con Stalin, e con le nazioni alleate dell’Inghilterra che erano state combattute ed invase dall’Italia, e che aspettavano di riscuotere la loro parte.

 

Le discussioni a distanza che si svolsero tra gli ammiragli Riccardi e Doenitz, quest’ultimo sempre più infuriato perché riteneva che almeno le unità del naviglio leggero italiano – incrociatori e cacciatorpediniere – dovessero essere impegnate per svolgere azioni di disturbo contro i convogli di sbarco e di rifornimento del nemico, sono esposte in modo convincente dall’Autore di “fucilate gli ammiragli”. Egli infatti si è basato, per quelle discussioni, su quanto da me scritto e documentato in “La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo”; un testo che è stato ristampato nel 2005 da Storia Militare, senza però apportare, per motivi editoriali, le necessarie ampie modifiche di aggiornamento come avevo chiesto.

 

Infine, tutto il resto del libro di Rocca è assai convincente, specialmente riguardo ai sempre più frequenti tentennamenti mostrati da Riccardi nell’intraprendere operazioni offensive, e alla descrizione delle deludenti missioni dell’agosto 1943, svolte nelle acque settentrionali della Sicilia dalle divisioni incrociatori degli ammiragli Oliva e Fioravanzo. Ragion per cui all’Autore di “Fucilate gli ammiragli” si può perdonare di aver usato degli aggettivi forti, per far colpo sui lettori.

 

In definitiva sui tratta di un buon libro, che si legge bene e che, essendo smussato da polemiche di carattere politico e basato esclusivamente su elementi storici e memorialistici, rende presso il grosso pubblico, che non conosce i testi ufficiali, un buon servizio per una onesta conoscenza degli avvenimenti della storia della Regia Marina nella seconda guerra mondiale.

 

Francesco MATTESINI

Edited by Francesco Mattesini
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Sono d'accordo con Mattesini nella valutazione in complesso positiva del libro di Rocca e assolutamente negativa della recensione di Malatesta.

Sulla lunghissima lettera di Mattesini avrei molte osservazioni da fare.

Per cominciare non sono d'accordo sul mancato intervento di Littorio e Vittorio Veneto a Punta Stilo.

Come osserva Iachino, in situazione analoga gli inglesi non ebbero dubbi a mandare la Prince of Wales contro la Bismark anche se non era pronta e aveva ancora molti operai a bordo.

Non fu un pieno successo, ci furono parecchie avarie nelle artiglierie, ma alla fine un colpo a segno della Prince of Wales fu decisivo per la perdita della Bismarck.

I rischi dell'intervento di Littorio e Vittorio Veneto a Punta Stilo sarebbero stati molto minori; solo per la loro presenza probabilmente gli inglesi si sarebbero ritirati evitando la battaglia.

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L'intervento delle due LITTORIO a Punta Stilo (9 luglio 1940) é un invenzione di IACHINO, che ce l’aveva con Supermarina. Le due navi erano ancora in fase di addestramento, e non erano pronte al combattimento perché le artiglierie da 381 non erano a punto per difetti ai calcatoi. Sarebbero state disponibili soltanto nell'ottobre del 1940 e quindi tre mesi dopo la battaglia di Punta Stilo.

 

Inoltre, il 5 luglio si verificò sulla LITTORIO un allagamento alla torre di tiro n. 1 da 381 a causa di un nubifragio che aveva colpito Taranto, e pertanto la torre stessa era praticamente fuori uso. Poi, l'indomani, si verificò un incendio ad un altra torre della LITTORIO dove mori fra le fiamme un operaio civile. I lavori per le riparazioni si prolungarono per venti giorni.

 

Questa era la situazione della IX Divisione Navale, tutto il resto é fantasia.

 

Per saperne di più vedi il mio libro dell’Ufficio Storico Marina "La battaglia di Punta Stilo", e per l'opinione dell'ammiraglio Carlo Bergamini, che subito dopo gli incidenti denunciò presso Supermarina la situazione della LITTORIO e della VITTORIO VENETO,  il Documento n. 1(in forma originale) dell’altro mio libro "La Battaglia di Capo Teulada", p. 231-232.

 

 

Quindi Bergamini, stante la situazione, non poteva chiedere due giorno dopo gli incidenti sulla LITTORIO, di partecipare al combattimento navale, ed infatti non esiste nessun documento che sostenga questa te. Inoltre Bergamini (vedi il mio libro "Le direttive tecniche operative di Supermarina", vol. 1°) non aveva mancato di lamentare più volte i ritardi che, complice anche la Ditta costruttrice, si prolungavano nella messa a punto delle artiglierie.

 

Sull'ULTRA, invece, dichiarare che decrittavamo meglio degli inglesi e tutto da ridere. Fino a quando non é uscito il mio libro "La battaglia di punta Stilo", che dimostrava la miseria delle nostre intercettazioni nel decifrare correttamente i messaggi in codice della Marina Italiana, nessuno era arrivato a consultare quei documenti divulgandoli, esistendo sulla materia un silenzio assoluto.

 

Dopo la mia scoperta molti, a iniziare dal CERNUSCHI, si sono precipitati all'Ufficio Storico della Marina, per consultare i vari documenti, raccolti in volumi. E da questo momento tutti hanno vantato le loro scoperte, di un argomento che io avevo avuto modo di consultare in ogni risvolto, accorgendomi subito nel campo crittografico, senza l'aiuto tedesco del B-Dienst, eravamo veramente modesti.

 

Recentemente l'Ufficio Storico  ha stampato (non conosco con sicurezza chi lo ha consigliato ma credo di immaginarlo) un dattiloscritto del Comandante PORTA, che dirigeva la Sezione B dell'Ufficio Crittografico di Maristat, e che veniva imbarcato con i suoi tecnici sulla nave ammiraglia della flotta ogni qualvolta si preparava un'operazione navale. Fu lui che a Matapan cerco di convincere IACHINO che le navi britanniche non si ritiravano ma continuavano a seguire la Flotta italiana, con le conseguenze che conosciamo.

 

Ebbene, questo dattiloscritto, che fotografai per intero, dopo averlo confrontato con i vari episodi navali, mi apparve talmente privo di significato in molti punti che l'ho distrutto, mantenendo soltanto qualche pagina che poteva servirmi nei miei lavori, come per l’operazione di Matapan, e che ho inserito in quel mio libro.

 

Francesco Mattesini

Edited by Francesco Mattesini
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